2014-06-20 11:53:00

Rifugiati siriani in Libano tra accoglienza e paura


In Siria non si arresta lo scontro tra oppositori e militari del regime. Un'autobomba è esplosa nel villaggio di al-Hurra, alle porte della città di Hama, nel centro-ovest del Paese. Trentaquattro civili sono morti, altri 50 sono stati feriti. In oltre tre anni di conflitto sono più di 160 mila le vittime, 9 milioni gli sfollati interni ed esterni. In Libano hanno trovato riparo oltre 1 milione e mezzo di rifugiati siriani. Massimiliano Menichetti ha intervistato il prof. Aldo Morrone, direttore della struttura complessa di medicina delle migrazioni del turismo e di dermatologia tropicale dell’istituto San Gallicano, appena rientrato da una missione di assistenza internazionale a Beirut, coordinata insieme alla Chiesa Valdese, Fondazioni locali e l’Associazione Armadilla di Roma:

R. - Sono stato nel campo profughi di Ketermaya, una cittadina a circa cinquanta chilometri a Sud di Beirut, dove vivono circa 150 mila persone e 50 mila sono i rifugiati provenienti dalla Siria. E’ gestito con la collaborazione di alcune organizzazioni non governative libanesi ed è un campo dove stanno cercando di fare il massimo per garantire l’igiene e la salute delle persone. Certo manca soprattutto l’acqua potabile; mancava il cibo e le case che sono riusciti a costruire sono di cartone e non reggeranno certamente al prossimo inverno. C’è una situazione estremamente difficile, ma anche un grande impegno da parte di tutti, che condividono questa situazione di sofferenza dei siriani.

D. - In generale qual è la situazione dei profughi, che in Libano peraltro sono spesso ospitati anche dalle famiglie libanesi?

R. - Non solo sono ospitati dalle famiglie, ma anche le stesse province e realtà locali aiutano queste persone cedendo il terreno, delle case diroccate che vengono ristrutturate, tant’è vero che si chiamano host communities: non si vedono tendopoli, quanto si vedono queste case dove trovano rifugio, grazie - devo dire - all’impegno di molti libanesi.

D. - I profughi siriani guardano alla Siria con il desiderio di ritornarci o si stanno organizzando per andare via o per restare nei luoghi dove ora sono ospitati come rifugiati?

R. - Circa il 20 per cento dei siriani tenta di andar via definitivamente dal Medio Oriente e di cercare rifugio in Europa o comunque in Paesi dove ci sia pace e prosperità. L’altro 80 per cento invece non può e comunque sceglie di cercare di tornare in Siria: vogliono la pace il prima possibile!

D. - Qual è il messaggio che lei riporta da questo viaggio per quanto riguarda il popolo siriano e il popolo libanese che, in questo momento, vivono insieme?

R. - Il Libano si trova con quasi metà degli abitanti che sono siriani, li ha accolti! Però ovviamente vivono in condizioni di povertà, di difficoltà. Hanno una necessità di uscirne insieme: da una parte il Libano, che deve tornare ad avere un sistema sanitario, un sistema economico che garantisca anche i più poveri; dall’altro i siriani affinché possano tornare a casa. Una delle cose che mi ha colpito è stata questa volontà di solidarietà e di aiuto. Entrambe le popolazioni, siriani e libanesi, hanno un futuro comune: loro ci credono e sperano che l’Occidente, i governi dell’Unione Europea possano aiutarli in questo.

D. - Lei è partito in un’altra missione internazionale, seguiranno altri quattro incontri proprio in Libano: materialmente cosa state cercando di costruire?

R. - Andiamo nei campi profughi per valutare esattamente le condizioni di igiene e le condizioni di salute; secondo, la formazione di community network - cioè di operatori locali - sia siriani sia libanesi, che possano aiutare a fare questa attività di prevenzione delle malattie e contemporaneamente di aiuto socio-sanitario, ma anche psicologico soprattutto per i bambini che sono stati testimoni di situazioni drammatiche, di violenze terribili che hanno dovuto vivere.

D. - Quali sono le patologie più presenti in queste condizioni?

R. - Quelle più drammatiche: la broncopolmonite, l’encefalite, la cheratite; ci sono stati migliaia di casi di morbillo, poliomelite; c’è stata la leishmaniosi; oltre alle malattie croniche che già queste persone vivevano nel loro Paese, come l’ipertensione arteriosa, le gastroenterite. E’ stato segnalato anche il primo caso di Mers, infezione cioè da coronavirus, tipici del Medio Oriente, che è stato confermato che è una nuova forma di Sars.

D. - Lo ribadiamo ancora una volta, il Libano in questa situazione è fortemente gravato dalla realtà siriana?

R. - Il Libano sta chiedendo un aiuto internazionale: non soltanto alle grandi agenzie delle Nazioni Unite, ma ai vari governi perché una situazione già fragile per conto loro sta diventando ancora più fragile. Noi dobbiamo dire che l’80 per cento dei rifrugati siriani si trova in luoghi geografici, in territori dove vivono i libanesi che vivono al di sotto della soglia di povertà…

D. - Da quello che sta dicendo si evince un paradosso molto bello: coloro che sono più svantaggiati, in realtà stanno aiutando coloro che stanno ancora peggio…

R - Devo dire che questo è straordinario! E’ la dimostrazione che la solidarietà, la compassione, la generosità passa effettivamente attraverso le fasce che hanno vissuto o che vivono sulla loro pelle una situazione di grande fragilità. E’ veramente la testimonianza che l’amore, l’attenzione nei confronti dei fratelli più bisognosi raccoglie - devo dire - uomini e donne di tutte le religioni. Il Libano e la Siria sono un crogiolo di religioni e di culture diverse, questo l’ho veramente trovato: è un’espressione straordinaria, un segno dei tempi da cogliere!








All the contents on this site are copyrighted ©.