2014-07-20 08:43:00

Stazioni ferroviarie: non solo treni, anche solidarietà e accoglienza


Presentato a Roma il Rapporto 2013 dell’Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle stazioni ferroviarie italiane (Onds). Il problema legato alla precarietà è in aumento con persone, in maggioranza italiani e in parte immigrati, che scivolano verso una deriva di marginalità per l’impoverimento che investe fasce sempre più ampie di popolazione. Il rapporto sul disagio nelle stazioni ferroviarie mette in luce, tra l’altro, una povertà sanitaria aggravata da una “disaffezione alla cura” che interessa i senza fissa dimora che vivono in stazione. Luca Collodi ne ha parlato con Alessandro Radicchi, direttore dell’Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle stazioni ferroviarie italiane:

R. - Sicuramente le stazioni italiane sono un punto di incontro, in cui moltissime persone emarginate vengono a cercare riparo. La domanda che dobbiamo farci è perché queste persone scelgono effettivamente la stazione? Considerando che l’ultima indagine Istat aveva fotografo 50 mila persone senza dimora nel territorio italiano, noi oggi - con il nostro Rapporto - diciamo che 25 mila di queste passano per le 14 stazioni ferroviarie che sono oggetto del nostro Rapporto. Quindi diciamo almeno il 50 per cento, perché poi sicuramente ci sono quelle che sfuggono al nostro meccanismo di aiuto. Però questo è un dato molto importante. L’altro dato importantissimo che noi abbiamo rilevato - anche grazie ad un sistema che si chiama Anthology, di presa in carico delle persone, seguendole da una città all’altra - è che la metà di queste 25 mila persone è rappresentata da nuovi utenti del 2013: questo vuol dire che sono persone che nel 2012 non c’erano e che sono arrivate l’anno dopo. Quindi c’è un ricambio di circa il 50 per cento delle persone marginate. Questo ovviamente è specchio anche dei flussi migratori che arrivano nel nostro Paese. Quindi è ovvio che le persone che arrivano nelle stazioni ferroviarie possono trovare una situazione di marginalità, che però - e questo ci tengo a dirlo - accade proprio nelle stazioni perché purtroppo mancano i servizi fuori.

D. - Chi abita oggi nelle stazioni ferroviarie italiane?

R. - Partendo da Milano Centrale: a Milano Centrale c’è uno sportello del Comune di Milano che gestisce - proprio da lì - anche gli orientamenti ai servizi comunali e quindi sostanzialmente tutte le persone emarginate di Milano passano da quello sportello e infatti noi registriamo 14.092 persone che si sono rivolte allo Sportello dell’Help Center di Milano nel 2013. Andando poi su Roma, dove anche qui abbiamo numeri molto importanti, parliamo di 2.822 persone che hanno usufruito del servizio dell’Help Center nel 2013. Chiaramente nelle stazioni minori, i numeri sono minori: mille su Napoli, 1.300 su Torino… Ma chi è la persona che viene nelle stazioni? Noi abbiamo evidenziato due figure: abbiamo un giovane straniero, in modo particolare di nazionalità romena o tunisina - queste sono le due principali - tra i 30 e i 50 anni, che come bisogni ha problemi migratori, ha problemi nel suo percorso migratorio di inserimento, è senza lavoro, ha delle problematiche sanitarie e vive per strada. Dall’altra parte abbiamo, invece, un’altra figura che è quella dell’italiano, che è un over 60, che ha perso il lavoro, ha dei debiti - molto interessante questo dato che è emerso - e ha dei problemi sanitari e - differentemente dall’immigrato - vive prevalentemente in un centro di accoglienza oppure da amici o parenti.

D. - Perché queste persone scelgono di vivere in una stazione ferroviaria?

R. - La stazione dà, in qualche modo, sicurezze - per esempio quando fa freddo, nelle stazioni fa caldo perché sono riscaldate; quando fa caldo, c’è l’aria condiziona e quindi fa fresco… - e poi c’è anche questo elemento di relazionalità che è molto importante. Quindi anche vivere nella stazione, con i treni che partono, che arrivano, le persone che passano, dà un senso di sicurezza alla persona che va a ritrovare la casa in quello spazio perché ricostruisce un po’ l’ambiente cui vorrebbe tendere, creandosi però delle barriere, dei substrati, che in qualche modo nascondo poi la persona. A noi sono serviti 6 anni per spostare una persona dalla testa del binario 1, dall’inizio del binario, fino al nostro centro, a 500 metri di distanza, convincendola ad andare lì e quindi ad accettare un aiuto. Questo è un lavoro che ovviamente politicamente non paga, perché si prende un operatore pagato, che costa allo Stato almeno 15 euro l’ora, e si mette lì a parlare con una persona, a parlare, parlare, parlare… Spesso molti dicono: “Non ne vale la pena!”. Ma non è vero! Per noi vale la pena, perché vale sempre la pena! Anche salvare una sola persona. Finché noi continueremo a salvare almeno una persona, allora saremo degni di chiamarci esseri umani: se pensiamo solo ai grandi numeri, allora non arriveremo mai da nessuna parte.








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