2014-07-21 14:31:00

"Finis Terrae": il dramma dei migranti alla Festa del Teatro di San Miniato


Repliche fino al 23 luglio per il dramma popolare: “Finis Terrae”, nell'ambito della Festa del Teatro di San Miniato, in Toscana, quest'anno alla sua 68.esima edizione. Il testo dedicato al tema attualissimo dell'immigrazione in Italia via mare e scritto da Gianni Clementi con la regia di Antonio Calenda, è interpretato da attori noti come Nicola Pistoia e Paolo Triestino e da 9 giovani africani, alcuni dei quali musicisti. In scena parola e suono coinvolgente di tamburi si alternano per dare conto della sofferenza e della speranza di quanti cercano una vita più degna. L'opera è frutto della coproduzione tra Fondazione Istituto Dramma popolare di San Miniato e il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. A sostenere l'intera iniziativa, patrocinata dal Pontificio Consiglio della cultura, è la Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato. Il servizio di Adriana Masotti:

La scena è una spiaggia in una notte invernale spazzata dal vento. Tra cielo e mare, il dialogo tra due contrabbandieri in attesa di un'imbarcazione. Dal mare arriveranno invece le storie cariche di dolore, rabbia e speranza di un gruppo di clandestini africani. C'è anche una donna incinta che racconta le violenze subite. E' il volto della nuova schiavitù di cui sono vittime i popoli di nazioni povere o in guerra. A dare voce alla donna è Ashai Lombardo Arop, attrice di origini sudanesi:

R. – Sicuramente è un grande compito, ed è anche un compito difficile. Anche perché noi tutti viviamo questa cosa in modo profondo. La mia famiglia – io sono italiana e sono nata qua – ma mio padre ha vissuto queste cose, perché il Sud Sudan è un Paese in guerra da 30 anni e quindi la maggior parte di loro ha vissuto fughe terrificanti per anni, maltrattamenti… Per cui, è come se io avessi avuto il compito di raccontare la storia della mia famiglia; però, nello stesso tempo, sono felicissima di poter portare questa storia, che è una storia vera.

D. – Fa impressione che in mezzo, o dopo tanti drammi, a vincere sia sempre la vita, perché in scena nasce un bambino, e quindi anche la speranza nel futuro…

R. – Questa è la grandezza del testo. La vita vince sempre e lo vediamo anche tra noi, perché l’Africa è un Continente meraviglioso! Io vorrei portare, cerchiamo sempre di portare la bellezza dell’Africa. Questi ragazzi portano in scena un dramma, ma mettendoci dentro anche tutta la bellezza del loro Paese. E quindi dietro le quinte ci si diverte, si ride, si canta, si suona continuamente… Hanno un modo di trattare gli stress dello spettacolo in maniera completamente diversa dagli occidentali: loro sono sempre calmi, non si stressano mai, hanno una concezione diversa del tempo. Quindi, ti possono insegnare veramente cosa significa la positività. E allora, è quello il messaggio che deve passare al di là di tutte le tragedie, secondo me.

D. – E i due attori italiani mi sembra che interpretino un po’ l’uomo comune che un po’ sa, un po’ non sa, un po’ è egoista e qualche volta però si lascia anche prendere dalla commozione…

R. – Sì: infatti, è proprio quello che devono interpretare. Quindi, non c’è neanche tanto lo stereotipo, non c’è il razzista reale: c’è l’uomo semplice, che giustamente non ha mai visto una cosa completamente diversa da lui e si stupisce. E’ infatti quello che ognuno di noi pensa, pure gli africani sono razzisti... E’ un po’ nella natura umana diffidare del diverso: lo facciamo tutti. Poi, è l’intelligenza che deve cambiare questa natura umana, e allora è lì che poi c’è la differenza.

“Finis Terrae”, un testo scritto appositamente per la Festa del Teatro di San Miniato, è ricco di simboli e di metafore, il linguaggio è poetico. La parola scuote e apre alla scoperta dell'altro: il regista Antonio Calenda:

R. – Io sono sempre stato attratto dal tema delle migrazioni, perché trovo che sia una delle tragedie della specie umana. Io credo che l’emigrazione sia proprio un dato antropologico della nostra specie, ed è una delle rappresentazioni visibili dello sradicamento, quindi del dolore. E credo che il teatro debba in qualche modo occuparsene. Come? Il teatro è la "specula" magica attraverso cui l’uomo riflette su se stesso e sulla società, è il momento della liturgia relativa al senso di quello che noi siamo, di quello che viviamo. Ma soprattutto è la liturgia del percepire che c’è l’"alter", l’alterità, il senso dialettico del prossimo. Allora il teatro, che è il luogo proprio della necessità della relazione, credo che dovesse porsi questo problema. E il teatro è il luogo dove la metafora trova la sua sede naturale, allora noi abbiamo inventato una storia di due poveri disgraziati i quali, nottetempo, in una notte di Natale, vivono come in un sogno un arrivo, un arrivo di altri. Questo apparente arbitrio di mettere in scena il sogno, ci permette poi di far irrompere la realtà che diventa prepotente, diventa non-retorica. L’Istat ha detto che tra 30 anni l’Italia sarà per metà nera, e noi dobbiamo prepararci con il massimo dell’apertura, con il massimo dell’accoglienza, tenendo presente il concetto di "caritas" che riconosce l’altro, il prossimo: come ha detto Papa Francesco. E io credo che il teatro debba far percepire, in assoluto, che l’uomo ha bisogno dell’altro uomo. Non a caso, il teatro è fondato sull’uso della parola, che diventa sacra, perché nel momento in cui la parola in teatro viene detta, è un inizio. Ma l’inizio di che cosa? Del riconoscimento che c’è un altro a cui io rivolgo la mia parola. Non c’è un’arte che sia così assoluta nel riconoscimento dell’uomo come il suo prossimo, perché senza il prossimo non è dato teatro. “Drama” in greco significa contrasto, ma anche relazione. Quindi, io mi lego ad un’altra persona attraverso la parola.

D. – Qual è l’esperienza che ha vissuto lei, come persona e come regista con queste persone diverse, con gli attori…

R. – E’ stata una delle più belle avventure della mia vita. Queste persone hanno un forte senso religioso della vita. Loro cantano, ballano perché sentono di rappresentare un’identità che è la loro terra. I tamburi sono strumenti dei padri dei loro padri … Ma la cosa più bella è che loro, quando suonano, sentono di compiere un atto religioso. Sono musulmani e mentre provavamo, loro non potevano essere defraudati del loro momento di raccoglimento e questo era commovente. Ismaila Mbaye, quello che parla di più, in Senegal è una star. E’ venuto qui a fare questo spettacolo perché – mi ha detto – per lui questa è una missione.

Sono ormai 68 le edizioni di questa Festa del Teatro, ma che cosa rappresenta per San Miniato? Sentiamo Marzio Gabbanini, presidente della Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato:

R. – San Miniato è una città d’arte, una città di cultura, una città di teatro. Il nostro è il Teatro dello Spirito e Teatro del cielo. Il nostro teatro è nato nel 1947, sulle rovine della guerra, per ridare nuova speranza a un Paese ormai distrutto e l’obiettivo e il programma che i soci fondatori si dettero era quello di un programma di ispirazione cristiana, che deve sollevare i problemi e le inquietudini dell’uomo moderno. Dunque, credo che quest’anno ci siamo riusciti, perché anche grazie a Papa Francesco, che ha posto e ci dà dei messaggi costanti di attenzione a quelli che lui chiama “gli scarti della terra”, “gli ultimi della terra”, abbiamo creduto di fare scrivere un testo su misura proprio stimolati da questo Papa, per parlare di queste povertà spirituali, materiali e non ultima questa enorme povertà di queste persone che vengono sui barconi della speranza. Vorrei dire questo: che noi siamo abituati a considerare la povertà come una compagna scomoda, che non vogliamo considerare. Però, questa poi ti bussa a quel sentimento di "pietas" che ci deve stimolare, per cui bisogna guardarsi in faccia e dire: io mi devo mescolare con le fragilità degli altri.








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