2014-07-23 13:42:00

Conferenza di Melbourne: in calo Aids, tubercolosi e malaria


È stato presentato ieri, alla Conferenza internazionale sull’HIiv in corso a Melbourne, il Rapporto della rivista “The Lancet”, un’analisi del “Global Burden of Disease Study 2013” guidata dal prof. Christopher Murray dell’Università di Washington. Le cifre regalano speranze per il prossimo futuro: dal 1996, i farmaci antiretrovirali hanno salvato oltre 19 milioni di vite, diminuendo i decessi causati anche da malaria e Tbc. Le tre “malattie della povertà”, infatti, sono legate tra loro: trattare l’Hiv significa diminuire le probabilità di contagio da parte delle altre due. Paolo Giacosa ha chiesto di spiegare l’interconnessione tra le tre patologie a Carlo Federico Perno, ordinario di Virologia all’Università Tor Vergata e primario di Virologia molecolare al Policlinico “Tor Vergata”:

R. – Globalmente, nei Paesi poveri abbiamo tre grandi cause di mortalità che sono l’Aids la tubercolosi e la malaria. Queste tre grandi cause collaborano fra di loro perché chi ha l’Aids è più predisposto ad ammalarsi di tubercolosi e malaria e ha una mortalità superiore da tubercolosi e malaria. Sono tre malattie, le cosiddette "malattie della povertà", che collaborano perfettamente per fare ulteriori danni in una situazione già disastrata. Quindi, sapere da questo report che negli ultimi anni c’è stato un calo della mortalità per quanto concerne sia l’Aids, sia la tubercolosi e la malaria non può che far piacere. Non va dimenticato che anche in questo senso c’è una correlazione tra le malattie. Finalmente, in Africa, nei Paesi poveri, è arrivata la terapia: oggi è arrivata a svariati milioni di persone che hanno il virus Hiv meno aggressivo. Di conseguenza, la tubercolosi e la malaria uccidono di meno. Ecco spiegato come pian piano si sta ottenendo un risultato che era auspicabile da tanto tempo. Attraverso l’Hiv si riesce a colpire l’Hiv stesso, che rimane una causa di morte primaria, ma anche la tubercolosi e la malaria.

D. – I dati diffusi in questi giorni non sono ancora un punto di arrivo, ma testimoniano i progressi della ricerca. Quali sono i programmi in atto per contrastare queste infezioni?

R . – Questo dipende dai vari contesti. Nei Paesi in via di sviluppo, proprio il trattamento delle persone infettate rappresenta un primo elemento attraverso cui ridurre le nuove infezioni, poiché una persona infettata e non trattata trasmette il virus. Una persona infettata ma trattata ha bassa carica virale e quindi tendenzialmente non trasmette il virus. Quindi, probabilmente oggi possiamo dire che il primo metodo attraverso cui ridurre le nuove infezioni nei Paesi in via di sviluppo è il trattamento dell’Hiv. In Occidente, la situazione è leggermente diversa. Noi abbiamo un trattamento diffuso, la stragrande maggioranza di pazienti con infezione da Hiv sono in trattamento, hanno carica virale bassa e quindi trasmettono poco l’infezione. Il vero problema dei Paesi occidentali è l’emersione del sommerso: cioè, quei pazienti che infettati da Hiv non sanno di esserlo, o non vogliono sapere a volte di esserlo, e continuano con comportamenti anche a rischio. In Italia, l’anno scorso abbiamo avuto circa quattromila nuove diagnosi di infezioni da Hiv e il numero non sembra diminuire negli anni.

D. – I dati ci dicono che siamo sulla strada del miglioramento, ma non bisogna allentare l’attenzione sulla prevenzione dal contagio?

R. – Assolutamente no. Semmai il rischio è l’opposto: cioè, abbassando l’attenzione, si ha la percezione che questa sia una malattia ormai guaribile. Dall’Aids purtroppo non si guarisce, l’Aids si cura. Se uno si tratta è meno a rischio di morte, è meno a rischio di trasmissione, ma se tutto questo non accade, il virus continuerà a diffondersi.

D. – Quindi, nei Paesi occidentali risulta molto importante focalizzarsi sull’educazione?

R. – Sull’educazione e sulla consapevolezza. La consapevolezza che l’Hiv c’è in Italia, c’è nei Paesi occidentali, che i comportamenti a rischio continuano a esserci e semmai tendono ad aumentare. Oggi, fare il test significa scoprire l’eventuale sieropositività in tempo utile per essere trattati presto e in questa maniera si ottengono due risultati: la malattia viene controllata prima e si può mettere a dormire per tanti anni, anche per tutta la vita, e nello stesso tempo non si trasmette il virus.








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