2014-07-28 16:48:00

Addio a Carlo Bergonzi, grande tenore verdiano del '900


Si è spento a Milano, il 26 luglio scorso, Carlo Bergonzi, uno dei piu' grandi tenori verdiani del '900: aveva da poco compiuto i 90 anni. Una carriera di più di 40 anni, un' amplissima discografia e tanti riconoscimenti internazionali. "Una vita per la musica" come recitava il premio assegnatogli nel 2010. Rimarrà la sua traccia nella storia, spiega al microfono di Gabriella Ceraso, Paolo Patrizi critico musicale:

R. – Con lui se ne va l’ultimo esempio di quella generazione che è al contempo la “cerniera” tra i cantanti del dopo guerra ed i cantanti degli anni ’70 ed in questo arco Begonzi è stato sicuramente l’interprete verdiano di riferimento. Vorrei ricordare, ad esempio, la sua Lucia Di Lammermoor di Donizzetti come altra cosa storica.

 D. – Cosa aveva di bello e di particolare la voce di Bergonzi?

 R. – Bergonzi studiò da baritono, il suo debutto come tenore è del 1951. Sicuramente fu uno sbaglio dei suoi maestri indirizzarlo a questo registro vocale  però questo sbaglio costruì una voce molto robusta nei centri e con un colore molto scuro, che dà una patina indubbiamente molto verdiana.

D. – Cosa lascia nella storia interpretativa?

 R. – Bergonzi non era una grande presenza scenica e dunque lascia proprio questo messaggio, di espressività vocale e teatrale data esclusivamente dal canto, come dire chesi pulò riuscire a “recitare” soltanto con la voce.

 D. – Bergonzi era anche conterraneo oltre che grande iterprete di Verdi, una vicinanza geografica …

 R. – Sì, geografica e antropologica e su questo probabilmente ci ha anche un po’ giocato a livello di marketing, come è assolutamente lecito che sia: lui, mi sembra, forse quando aveva già smesso di cantare o forse anche prima, ha aperto un ristorante a Busseto che si chiamava “I due Foscari”, dal nome di una delle opere, uno dei suoi personaggi. Ci ha giocato, come anche Caruso e Pavarotti hanno molto giocato su alcune cose di mercato; questo rientra nelle regole del gioco.

 D. – Con Carlo Bergonzi scompare – ha detto il direttore della Fenice – anche un modo di concepire l’arte ed il teatro…

 R. – C’è un modo di interpretare il teatro senza bluff, senza poter contare su sotterfugi di tipo scenico che in qualche modo coprano eventuali deficit nel canto. Lui non aveva deficit, aveva una tecnica talmente salda che si poteva concentrare sull’espressività del puro suono. Questa è la lezione che ci lascia: una tecnica talmente solida che puoi fare a meno della tecnica, una volta che l’hai assimilata.

 D. – Ogni volta che scompare un grande interprete del passato si chiude un capitolo. Il presente ed il futuro della lirica, secondo te, sono altrettanto preziosi e ricchi di speranza e di bellezza?

 R. – Se così non fosse significherebbe che non c’è più motivo di andare a teatro, né di sentire musica. Quindi, la speranza ci deve essere sempre. Non vedo, non voglio dire dei piccoli Bergonzi – cosa forse anche impossibile – non vedo questo tipo di lascito nell’armamentario primario dei cantanti di oggi e non solo dei tenori; credo che oggi si vada più verso un cantante-attore dove anche il gioco scenico e la bella presenza siano aspetti abbastanza imprescindibili. In questo senso il lascito di Bergonzi è invecchiato come è invecchiato quello di Beniamino Gigli, o quello di Pavarotti, per nominare altri due tenore “non belli” nel senso canonico del termine. Però, secondo me, questa lezione del valore del canto come fatto di teatro, cioè come espressività della parola cantata - fai teatro cantando - secondo me, travalica le generazioni e rimarrà sempre. Se non rimanesse morirebbe il teatro d’opera, perché l’opera è questo. 

 








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