2014-08-17 11:55:00

Papa a vescovi asiatici: dialogo si fa con empatia non formule


Dialogo non vuol dire tanto aprirsi all’altro ma accoglierlo, condividere le sue aspirazioni e le sue difficoltà. In una parola, è una questione di saper suscitare “empatia”, mantenendo un atteggiamento fraterno. Papa Francesco lo ha affermato nell’incontro con i vescovi dell’Asia, il primo degli impegni che ha aperto la sua terza giornata in terra coreana. Circa 400 persone hanno ascoltato il Papa nel Santuario di Haemi, conosciuto anche come “Santuario del martire ignoto”, perché l’identità della maggior parte dei 132 martiri torturati e uccisi nel luogo non è nota. Il servizio di Alessandro De Carolis:

In un mondo in cui ci si può distrarre facilmente con tanti “aggeggi”, il rischio è che anche chi è custode del Vangelo, e suo primo annunciatore, finisca per “giocherellare” con la fede. Che cioè si limiti a citare in modo impersonale norme e frasi fatte, invece di andare incontro alle persone con sincerità di cuore.

Come sempre accade, quando Papa Francesco ha di fronte vescovi e sacerdoti, il suo modo di inquadrare il dover essere dei ministri di Cristo è adamantino, senza sconti. Ciò che dice ai vescovi dell’Asia, radunati nel Santuario di Haemi, è un concentrato di sapienza e lungimiranza missionarie, dettate da esperienza pastorale vissuta sul campo e non desunta da sottigliezze teologiche. Tutta la riflessione di Francesco ruota attorno alla questione dell’“identità” cristiana. Quanto ne siamo consapevoli? E cosa invece la pregiudica? Perché, sostiene, solo da una chiara consapevolezza discenderà un vero dialogo. “Mentre dal niente, dal nulla, dalla nebbia dell’autocoscienza” non “si può incominciare a dialogare”:

“Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo, ciò che Dio ha fatto per noi e ciò che Egli richiede da noi. E se la nostra comunicazione non vuole essere un monologo, dev’esserci apertura di mente e di cuore per accettare individui e culture. Senza paura: la paura è nemica di queste aperture”.

Ma questo modo di essere e di procedere ideale, avverte Papa Francesco, può cadere in alcune trappole, almeno tre. La prima, dice, è rappresentata dalle “sabbie mobili” del relativismo, sabbie di “confusione e disperazione”:

“È una tentazione che nel mondo di oggi colpisce anche le comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che ‘al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli’. Non parlo qui del relativismo inteso solamente come un sistema di pensiero, ma di quel relativismo pratico quotidiano che, in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità”.

Viviamo, prosegue Papa Francesco, in “una cultura che esalta l’effimero e offre numerosi luoghi di evasione e di fuga”. In questo contesto – che può arrivare a causare anche “un serio problema pastorale” – la “solidità della nostra identità cristiana” può essere tentata in un secondo modo, con la “superficialità”:

“La tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano (...) Per i ministri della Chiesa, questa superficialità può anche manifestarsi nell’essere affascinati dai programmi pastorali e dalle teorie, a scapito dell’incontro diretto e fruttuoso con i nostri fedeli (…) Senza un radicamento in Cristo, le verità per le quali viviamo finiscono per incrinarsi, la pratica delle virtù diventa formalistica e il dialogo viene ridotto ad una forma di negoziato, o all’accordo sul disaccordo. Quell’accordo sul disaccordo… perché le acque non si muovano… Questa superficialità che ci fa tanto male”.

La terza tentazione viene invece dall’“apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti”, ovvero quel modo contro il quale, ricorda Papa Francesco, “Gesù ha lottato” definendo “ipocriti” coloro che vi ricorrevano. Invece, la fede – ribadisce – “per sua natura non è centrata su se stessa”, ma “tende ad ‘andare fuori’. Cerca di farsi comprendere, fa nascere la testimonianza, genera la missione”. E qui, Papa Francesco suscita l’esame di coscienza: quanto è “feconda” la “nostra identità di cristiani”? In altre parole, i vari piani pastorali portano frutto? Sanno suscitare, chiede ancora, quella “capacità di empatia” senza la quale non scatterà mai un dialogo autentico? Che non va inteso, precisa, come un generico aprirsi agli altri:

“Apertura? Di più: accoglienza! Vieni a casa mia, tu, nel mio cuore. Il mio cuore ti accoglie. Vuole ascoltarti. Questa capacità di empatia ci rende capaci di un vero dialogo umano, nel quale parole, idee e domande scaturiscono da un’esperienza di fraternità e di umanità condivisa. Se vogliamo andare al fondamento teologico di questo, andiamo al Padre: ci ha creato tutti. Siamo figli dello stesso Padre. Questa capacità di empatia conduce ad un genuino incontro – dobbiamo andare verso questa cultura dell’incontro – in cui il cuore parla al cuore”.

Se di questa pasta è fatto il dialogo promosso dai cristiani e dalla Chiesa – cioè “sincero, onesto, senza presunzione – allora, conclude Papa Francesco, sarà possibile instaurare reciproca comprensione anche a livelli più alti della normale quotidianità, quelli che possono far sentire fratelli Paesi e popoli che prima non lo erano:

“In tale spirito di apertura agli altri, spero fermamente che i Paesi del vostro Continente con i quali la Santa Sede non ha ancora una relazione piena non esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti. Non mi riferisco soltanto al dialogo politico, ma al dialogo fraterno… ‘Ma questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi’. E il Signore farà la grazia: talvolta muoverà i cuori, qualcuno chiederà il battesimo, altre volte no. Ma sempre camminiamo insieme. Questo è il nocciolo del dialogo”.








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