2014-08-21 08:42:00

Il Papa: pregare per i perseguitati in Iraq. Obama: elimineremo Is


La crisi in Iraq a una svolta. Dopo la barbara uccisione di James Foley, il giornalista americano decapitato dai jihadisti dello Stato Islamico, il presidente Obama ha detto che gli Usa reagiranno. Intanto, nel Paese resta drammatica la situazione di decine di migliaia di cristiani, yazidi e altre minoranze cacciate dagli estremisti verso il Kurdistan. Dopo averle incontrate in questi giorni, l’inviato del Papa, il cardinale Fernando Filoni, è rientrato ieri sera a Roma. Proprio ieri al termine dell'udienza generale Papa Francesco ha lanciato un nuovo accorato appello:

"Vi invito ad unirvi alla preghiera di tutta la Chiesa per quelle comunità dell’Asia che ho appena visitato, come anche per tutti i cristiani perseguitati nel mondo, particolarmente in Iraq, anche per quelle minoranze religiose non cristiane ma che anche loro sono perseguitate".

Dura la reazione del presidente Obama all’assassio di Foley. In Iraq proseguono i raid americani. Il servizio di Marco Guerra:

La Casa Bianca ha confermato l’autenticità del video dell’esecuzione di James Foley e il presidente Obama, in una breve dichiarazione ha detto che sarà fatta giustizia e che i miliziani dello Stato Islamico ambiscono a “commettere un genocidio”: per questo motivo - ha aggiunto – per loro "non c'è posto nel 21.mo secolo”, “elimineremo questo cancro”. L’allarme per un’esclation terroristica del conflitto iracheno si allarga però anche ai Paesi europei dopo che, secondo quanto emerge dal video della decapitazione del giornalista Usa James Foley, chi l'ha eseguita avrebbe un accento britannico. Particolare confermato anche dall’intelligence di Londra. Il ministro britannico degli Esteri, Philip Hammond, ha detto che il governo è consapevole della presenza di britannici ''in numeri significativi'' tra gli estremisti che operano all'estero. In particolare l'estremista che ha decapitato il reporter americano sarebbe il leader di una cellula di combattenti. Intanto sul terreno non cambia la strategia occidentale: l’Italia ha dato l’ok all’invio di armi ai curdi. Proseguono anche i raid aerei statunitensi sulle postazioni dei jihadisti, una quindicina nelle ultime 24 ore. Il Pentagono sta inoltre studiando l'invio di "un piccolo numero di truppe addizionali”. "Continueremo a perseguire una strategia a lungo termine” a confermato Obama.

Sulla minaccia aperta e la sfida che lo Stato Islamico ha voluto lanciare all'America Cecilia Seppia ha sentito Dennis Redmont, responsabile della comunicazione del Comitato Italia-Usa:

R. – Questa sfida con il mondo islamico è sempre esistita: non possiamo dimenticare gli eventi di New York del 2011 e del World Trade Center. Non possiamo dimenticare neanche la guerra contro i giornalisti, che sia in Pakistan o in altri Paesi: sono morti 70 giornalisti, in Siria, dall’inizio delle ostilità. Allo stesso modo, in questa guerra asimmetrica si utilizza la stampa che fa da cassa di risonanza per poter colpire l’opinione pubblica. Nel caso di Foley, era un giornalista molto esperto e dunque uno collegato con molti centri. Il gruppo Isis ha pensato che sarebbe stato spettacolare eseguire la sentenza mentre lui indossava una divisa che ricorda quelle dei prigionieri di Guantanamo.

D. – Nel video, si vede anche il volto di un altro giornalista americano e un miliziano che dice: “La vita di questo cittadino, Obama, dipende dalle tue prossime decisioni”. Di che decisioni parliamo? Cioè, cosa sta chiedendo lo Stato islamico a Washington, all’America?

R. – L’America adesso si prepara, forse, a ricalibrare tutta la sua politica in Medio Oriente, perché si rende conto che deve considerare la Regione come un tutt’uno e non come singoli Paesi. Peraltro, molti credono che nove-dieci Paesi del Medio Oriente sono forse destinati a disintegrarsi e a diventare piccoli principati o ducati nella guerra di uno contro l’altro, a seconda della religione. Nel caso dell’Isis, che è un gruppo sunnita estremista e terrorista, non corre buon sangue con gli sciiti e nemmeno con la Turchia e per questo la reazione dell’America certamente sarà una reazione ferma, continuando a difendere le minoranze che si trovano sotto attacco e soprattutto i locali strategici investimenti americani, che sia il petrolio o che siano anche basi americane avanzate che monitorano la situazione.

D. – Ci sono state tante vittime di questa guerra, tanti giornalisti, ultimamente anche un reporter italiano. Foley era un cattolico, ex alunno dei Gesuiti, e la mamma ha detto: “Ha sacrificato la sua vita cercando di mostrare al mondo al sofferenza del popolo siriano”, perché – ricordiamolo – lui era stato rapito in Siria nel 2012. La madre di Foley ha implorato anche i sequestratori di risparmiare la vita degli altri ostaggi: quindi, a questo punto, è necessaria una riflessione sulle tante vittime,in particolare i giornalisti, che sono in primo piano in questa guerra...

R. – Il problema della stampa è che sempre di più questi giornalisti diventano giornalisti "free lance", cioè che non sono dipendenti da agenzie o da testate, perché sarebbe troppo difficile, troppo pericoloso, troppo costoso assumerli in prima persona. Non hanno assicurazioni. Perciò, alcuni – come Foley – sono preparati, ma altri sono meno preparati. E poi, la prima domanda di qualsiasi guerriglia o terrorista, è: “Di che religione sei?”. In Europa, è un aspetto che noi non contempliamo, ma è molto importante, e questo perché la religione musulmana ritiene che quello sia l’aspetto principale. Perciò, una coincidenza veramente orribile.








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