2014-08-26 16:00:00

Rimini. Meeting: come l'archeologia in Siria può servire la pace


“L’archeologia in Siria oggi: un progetto per la pace” è il titolo dell’incontro centrale di oggi al Meeting di Rimini alla sua terza giornata. Un tema legato anche ad una delle mostre principali allestite alla Fiera. Messi in luce i gravi danni subiti dal patrimonio archeologico siriano a causa dei tre anni di conflitto, ma anche il messaggio di pace che l’archeologia e l’amore per l’uomo possono portare. Il servizio della nostra inviata, Debora Donnini:

La Siria: un mosaico di gruppi etnico-religiosi che ha tenuto bene fino allo scoppio del conflitto, ma anche un luogo ricco di reperti archeologici, oggi da difendere, e di grandi testimonianze umane. E’ questa l’immagine del Paese mediorientale che emerge al Meeting. All’incontro è stato proiettato un video del nunzio apostolico a Damasco, l’arcivescovo Mario Zenari, così come sono riecheggiate le parole del celebre archeologo che ha scoperto Ebla, Paolo Matthiae che ha ricordato le ferite inferte dal conflitto anche all’immenso patrimonio dell’umanità presente in Siria. “Bisogna salvare la diversità religiosa  e culturale” è stato, poi, l’appello di padre Ziad Hilal, coordinatore dei centri di educazione per i bambini del Jesuit Refugee Service ad Homs. Un incontro ricco di interventi video su quanto fa la gente del posto e nel quale si è ricordato l’impegno e i costi messi in campo per preservare i beni archeologici.

 

A intervenire, e ad aver collaborato alla mostra de Meeting dedicata alla Siria, è stato anche Giorgio Buccellati, professore emerito di Storia e archeologia del Vicino Oriente Antico alla Ucla, negli Usa. Il prof. Buccellati dirige da anni, assieme alla moglie, gli scavi nell’antica città di Urkesh, in Siria. La nostra inviata al Meeting, Debora Donnini gli ha chiesto quale sia stato finora il frutto del suo lavoro in questa località:


R. – Da un punto di vista archeologico, la città antica è molto importante perché rappresenta una civiltà diversa da quelle già conosciute, che erano soprattutto i sumeri e i babilonesi, e la nostra civiltà è quella degli urriti. Un aspetto che cerchiamo di mettere in luce nella mostra, e che si collega alla situazione attuale, è il coinvolgimento della popolazione locale nella protezione del sito, il che vuol dire spiegare l’importanza dell’archeologia, di un’archeologia che non è sempre spettacolare – come le Piramidi o il Colosseo – ma che è di fondamentale importanza per una comprensione del passato nostro e ancor più loro.

D. – Qual è il messaggio della mostra?

R. – Il messaggio della mostra è proprio che anche l’archeologia che si occupa di un passato remoto – infatti, il titolo è “Dal profondo del tempo” – serve a costituire la nostra identità di oggi. Quindi, c’è un forte elemento e messaggio interpretativo nella mostra, che vuole indicare la continuità dell’esperienza umana: come si fonda sullo sviluppo della comunicazione, quindi per esempio l’inizio del linguaggio e poi soprattutto della scrittura, che inizia proprio in Siro-Mesopotamia, e in base a questo come si è trasformato il senso del vivere insieme. E quindi, questo ci porta al mondo moderno: com’è che viviamo insieme, oggi, nel mezzo della guerra? L’archeologia e i risultati degli scavi archeologici possono aiutare popolazioni di etnie diverse, di sfondi, di “backgrounds” molto diversi, a sentirsi unite.

D. – Lei ha visto quindi che l’archeologia unisce persone diverse e quindi può portare un messaggio di pace?

R. – Decisamente. Io sono un archeologo e quindi non ho nessuna competenza di carattere politico. Però, guardando alla situazione in questi anni, abbiamo visto due cose. Una a livello piccolo, nostro: la gente con la quale noi siamo in contatto quasi giornaliero, senz’altro settimanale, la gente del posto che lavora per noi, ha sempre un fortissimo senso di responsabilità e non ho mai notato un senso di fatica o di disperazione. Questo mi ha colpito molto, e vuol dire appunto che c’è una forte vitalità nel popolo siriano. Io conosco solo questo piccolo frammento del popolo siriano, ma certo è impressionante come si siano identificati con quello che c’è di positivo che noi abbiamo cercato di mettere in luce, ma che loro hanno colto. Il secondo aspetto è invece a livello più ampio, nazionale in effetti. È l’impegno del Direttorato generale delle antichità e dei musei, che è l’equivalente della nostra Sovrintendenza. Si sono impegnati in un modo veramente esemplare. Infatti, a me viene in mente spesso quello che si legge a proposito della Seconda Guerra mondiale e dell’Italia, dove la Sovrintendenza ha avuto un ruolo importantissimo, in parte dovuto alle iniziative personali dei diversi singoli sovrintendenti. Ed è quello che vediamo anche in Siria: c’è un fortissimo impegno personale, anche a scapito della carriera personale… E la mostra vuole anche lanciare proprio questo messaggio: è un tributo al contributo degli archeologi siriani, che si stanno dedicando in maniera veramente, assolutamente esemplare alla protezione della loro eredità culturale.








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