2014-09-01 14:15:00

Iraq: offensiva governativa contro l’Is, curdi e sciiti prendono Amerli


In Iraq, prosegue l’offensiva governativa col sostegno dei raid americani contro le milizie del sedicente Stato islamico (Is). Dopo due mesi, è stato rotto l’assedio dei jihadisti alla città turcomanna di Amerli. Le forze curde e i miliziani sciiti hanno inoltre riconquistato la città di Sulaiman Bek sempre a scapito dell’Is. Il servizio di Marco Guerra:

I soldati del governo centrale iracheno, affiancati dai combattenti curdi e miliziani sciiti e appoggiati dai bombardamenti aerei americani, sono riusciti a spezzare l'assedio dei jihadisti intorno alla città di Amerli, abitata dalla comunità turcomanna, che durava da  circa due mesi. I turcomanni, una delle tante minoranze del mosaico iracheno, sono finiti nel mirino dei ribelli integralisti sunnti, come era già avvenuto per gli yazidi e cristiani nel nord dell’Iraq. Sempre nel nord del Paese, l’alleanza di diverse forze irachene ha riconquistato la città di Sulaiman Bek. A poca distanza si combatte poi per la riconquista del villaggio di Yankaja. Si tratta della più vasta operazione governativa dall’avanzata del sedicente Stato islamico nel giugno scorso. E anche nelle ultime ore proseguono i raid dell’aviazione Usa sulle postazioni dell’Is, oltre 120 quelli realizzati dall’avvio dell’intervento lo scorso 8 agosto. Secondo l’Onu, almeno 1.420 persone hanno perso la vita solo nel mese di agosto in Iraq per l'avanzata dell’Is. Intanto non si attenua l’emergenza per il milione e 600mila a sfollati interni. Anno scolastico a rischio a causa delle miglia di scuole occupate e usate come rifugio. Ma sui motivi di questa collaborazione inedita tra curdi e sciiti sentiamo Andrea Plembani, docente all'Università Cattolica di Milano e ricercatore dell’Ispi:

R. – Questa alleanza va letta nell’ottica di un rafforzamento degli interessi delle parti che ostacolano, appunto, l’ascesa dello Stato islamico. E’ la chiara percezione che ci sia una minaccia ben più significativa di quanto ci si aspettasse in passato e quindi di quanto sia necessario rispondere con un intervento congiunto – che è anche, tra l’altro, quello che gli Stati Uniti hanno sempre richiesto. Un intervento congiunto che questa volta ha messo assieme componenti differenti, tra cui le forze regolari dello Stato iracheno, almeno quelle che sono sopravvissute al disastro di Mosul, i peshmerga, ovvero i guerriglieri curdi – che dal nord hanno avuto un ruolo sempre più fondamentale nel rispondere alla sfida dello Stato islamico – e le milizie sciite, che hanno risposto all’appello delle principali autorità religiose sciite irachene. E’ quindi il tentativo di mettere assieme forze molte diverse, che hanno agende significativamente molto differenti, ma hanno un interesse comune almeno in questo momento.

D. – Il fatto che siano tutti minacciati dallo Stato islamico potrebbe ricomporre le fratture dell’Iraq?

R. – In parte potrebbe contribuire a ricomporre tali fratture, ma solo se lo sforzo militare attuale sarà sostenuto da uno sforzo politico locale e anche a livello internazionale. Le fratture di questo tipo di Iraq sono sempre state presenti. Il problema è cercare di ricreare un tessuto sociale condiviso, di dare una progettualità a quello che era lo Stato iracheno sorto dalle ceneri del regime di Saddam Hussein. Per quanto riguarda il nemico comune, e quindi ricomposizione delle fratture, bisogna anche notare una tattica molto interessante da parte dello Stato islamico: il tentativo cioè di colpire dei gruppi ben selezionati, ben scelti, delle minoranze. Non è un caso che si colpiscano minoranze: in questo caso i turcomanni, quindi popolazioni di etnia turcica, ma in particolare ad Amerli, una comunità turcomanna di fede sciita. Il tentativo delle forze dello Stato islamico è quello di colpire nemici che possano rientrare all’interno della sua propaganda: gli sciiti rappresentano per le forze dello Stato islamico degli apostati.

D. – L’Occidente proseguirà questa guerra per procura, con gli Usa direttamente interessati con l’aviazione o dobbiamo attenderci un’ulteriore escalation?

R. – Temo che dovremmo accontentarci di un sostegno esterno alla lotta che è stata ingaggiata dalle forze regolari irachene, dai peshmerga, oltre che da queste minoranze sciite. Dico temo perché, a mio parere, non si tratta sicuramente di un intervento decisivo: si tratta di cercare di spostare indietro, di ricacciare le forze dell’Isis per rompere questa offensiva. Questo non significa però sconfiggerle. Per sconfiggere questa minaccia, bisogna intervenire sul doppio fronte iracheno con un numero di forze ben superiori a quelle e molto più addestrate di quelle che al momento stanno combattendo – il che richiede per forza di cose un intervento statunitense – ma anche l’azione di attori regionali di primissimo livello. Mi riferisco in particolar modo alla Turchia, ma anche all’Iran stesso, per poi estenderci all’Arabia Saudita e al Qatar che hanno interessi ben differenti tra l’altro. In realtà, sarebbe necessario un intervento sul territorio concertato. Finché non si colpiranno le due teste di questo movimento, in parte siriana e in parte irachena, non si potrà assolutamente averne ragione, perché il confine tra questi due Stati, la Siria e l’Iraq, è ormai un confine tracciato sulla carta, ma di fatto inesistente.








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