2014-09-22 14:17:00

Sei mesi fa la comparsa di Ebola. L'impegno di Medici Senza Frontiere


Sono trascorsi sei mesi dall’inizio dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale, la più grave mai registrata. A ricordarlo è Medici Senza Frontiere (Msf) che dal 22 marzo, quando il virus ha fatto la propria comparsa nella foresta pluviale della Guinea, è in prima linea nei soccorsi alle popolazioni colpite appunto in Guinea, ma anche in Liberia, Sierra Leone, Nigeria e Senegal. Oltre 2.600 le vittime finora. Nei Paesi interessati dall’emergenza “non esiste una zona che non sia a rischio”, spiegano gli operatori di Msf. L’organizzazione ora lancia la campagna #STOP EBOLA, fino al 4 ottobre, per sensibilizzare e raccogliere fondi a favore della lotta contro la malattia. Giada Aquilino ha raccolto la testimonianza di Roberta Petrucci, pediatra di Msf, appena rientrata da Foya, nel nord della Liberia:

R. – Per Ebola, la situazione è veramente catastrofica. Interi villaggi sono stati colpiti, con metà della popolazione deceduta a causa del virus. Quindi la paura nella popolazione è palpabile. L’accesso alle cure è estremamente limitato o quasi nullo: quando siamo arrivati a Foya era presente un Centro di trattamento per l’Ebola di 10 posti letto, che nel giro di pochissimo è esploso e ci siamo ritrovati con 140 pazienti, anche nella necessità di chiudere gli accessi. Vanno considerate poi altre patologie che sono normalmente presenti nella comunità: anche in questi casi l’accesso alle cure è difficile, perché buona parte dei Centri di salute degli ospedali sono chiusi, non sono più funzionanti. Parliamo di patologie come malaria, infezioni batteriche, polmoniti, infezioni respiratorie, gastroenteriti; ma anche per un ‘banale’ parto, la donna che deve dare alla luce il proprio bambino non ha più accesso a un parto sicuro all’interno della struttura sanitaria.

D. – Cosa rappresenta un paziente infetto per l’emergenza?

R. – Ogni paziente infetto rappresenta un rischio per la sua famiglia e per la sua comunità. La contagiosità del paziente dipende molto da quanto la comunità conosce la malattia, perché in realtà la modalità per proteggersi c’è ed è anche relativamente semplice. Per esempio, nel progetto al quale ho lavorato io, ogni paziente entrava in contatto con circa 8-10 persone della propria comunità. Facendo educazione, abbiamo visto che alla fine ogni paziente era a contatto con due-tre persone, cioè i familiari più prossimi che se ne prendevano cura, e gli altri avevano capito che bisognava mantenere una certa distanza. Quindi, questo lavoro di educazione è possibile e può avere un impatto fondamentale.

D. – Per la prevenzione cosa consigliate?

R. – E’ un lavoro capillare che viene fatto all’interno delle comunità, che si svolge su diversi livelli. Innanzi tutto, il sistema di allerta: quindi un numero di telefono che la comunità può chiamare nel caso ci sia un paziente sintomatico, con la possibilità che un’ambulanza vada a prenderlo e lo trasporti al Centro medico in maniera sicura. Poi cercare di isolare il più possibile questo paziente all’interno della propria abitazione, quindi limitare i contatti, lavare le mani, lavare gli oggetti della persona con - se è possibile - acqua clorinata, ma anche acqua e sapone sono sufficienti. Infine l’altro aspetto fondamentale è la gestione delle cerimonie dei funerali, perché queste rappresentano un grosso momento di trasmissione dell’infezione: spesso c’è la tradizione di toccare il corpo del defunto e questo è un grosso rischio di contagio.

D. – La Liberia è uno dei Paesi in cui è morto il maggior numero di operatori sanitari. Perché?

R. – In generale, la Liberia è il Paese in cui ci sono stati, in assoluto, il più alto numero di casi e il più alto numero di decessi. E’ ovvio che in generale gli operatori sanitari sono ad alto rischio perché sono i primi che vedono i pazienti che accedono ai Centri di salute, sperando di potere avere accesso alle cure. Quindi nel momento in cui anche gli operatori sanitari non sono preparati ad affrontare l’infezione, perché - appunto - si tratta di un’infezione che non era presente nel Paese, non la riconoscono e non sanno come proteggersi o sanno come proteggersi ma non hanno gli strumenti: sono la parte della popolazione più a rischio.

D. – Ogni guarigione, lei ha detto, “è una festa”. C’è un episodio particolare, come pediatra, che porta con sé?

R. – Sì. Purtroppo, l’Ebola è una malattia che non risparmia nessuno; quindi, abbiamo ricoverato anche diversi bambini. Sicuramente, la parte più difficile riguarda i più piccoli perché spesso entrano con la loro mamma, da cui nella maggior parte dei casi hanno preso l’infezione, e capita a volte che la mamma non ce la faccia a sopravvivere e il bambino sì. Quindi ci ritroviamo con bambini di pochi mesi che rimangono da soli all’interno del Centro sanitario. Ricordo il caso di un bimbo di tre mesi, Elijah, la cui mamma purtroppo non ce l’ha fatta: noi eravamo molto preoccupati perché era rimasto da solo e non sapevamo come prendercene cura. Per fortuna, c’era una signora che era in fase di convalescenza, quindi che stava sostanzialmente bene, a cui abbiamo chiesto di occuparsi del bimbo. E in effetti, lei è diventata la mamma adottiva di Elijah. Sono felicemente usciti assieme quando entrambi sono guariti e poi Elijah è tornato alla sua famiglia.

 

La diffusione dell’epidemia di Ebola purtroppo “procede molto più rapidamente degli sforzi internazionali per contenerla”, ha detto Loris De Filippi, presidente di Msf Italia. Giada Aquilino l’ha intervistato:

R. – La situazione è veramente drammatica. Ha toccato finora 5 mila casi; i tre Paesi più colpiti sono sicuramente Liberia, Guinea e Sierra Leone. Sono passati sei mesi, ma l’intervento internazionale rimane scarso e insufficiente.

D. – Da subito, Medici Senza Frontiere ha dichiarato che la portata dell’epidemia era senza precedenti. Cosa è mancato nei sistemi di risposta al virus?

R. – E’ un’epidemia senza precedenti, quindi molto probabilmente i Paesi non erano pronti a fronteggiarla. Però, quello che è mancato è stato un intervento internazionale rapido. Per esempio: noi abbiamo messo in piedi cinque Centri globali della gestione di Ebola nei tre Paesi più colpiti; questi dovrebbero moltiplicarsi. Noi non siamo in grado di farlo, perché siamo allo stremo delle forze: abbiamo 2.400 persone impiegate sul terreno. Quello che chiediamo agli Stati, appunto, è di aumentare le loro capacità di risposta, soprattutto concentrandosi sulla cura e sul controllo dell’epidemia.

D. – Perché poi, di fatto, si è diffusa così tanto?

R. – Prima di tutto perché l’Africa, esattamente come noi, vive una sua globalità. Le persone si muovono all’interno di un contesto e in particolare in questo contesto, in cui per molti anni ci sono state delle guerre; adesso da dieci anni non ce ne sono più, ma ci sono profughi: liberiani in Guinea, sierraleonesi in Liberia e in Guinea… E, soprattutto, la mancanza di protezione e di informazione nei primi mesi dell’epidemia ha provocato questa facilità di diffusione.

D. – C’è il rischio che proprio questi Paesi tornino in una situazione di guerra, di conflitto o comunque di emergenza anche dal punto di vista politico?

R. – Sicuramente. Basti pensare che Paesi come la Liberia stanno collassando non solo dal punto di vista dei Centri per l’Ebola e dell’incapacità di gestire questa situazione, ma anche i Centri sanitari non funzionano più: parti dello Stato entrano in crisi perché tutto il sistema entra in crisi.

D. – L’impegno di Medici Senza Frontiere nei vari Paesi e la campagna appena lanciata …

R. – Lavoriamo nei nostri Centri, abbiamo la capacità di prendere in carico pazienti per circa 540 posti letto; va ricordato che noi non siamo in grado di dare risposte a tutti: per la prima volta, dobbiamo mandare a casa i pazienti, sapendo che sono malati e potenzialmente potrebbero infettarne altri. Il nostro impegno continuerà, ovviamente; quello che chiediamo oggi con la nostra campagna è di essere aiutati: chiediamo al governo italiano e a tutti i governi, per esempio, di poter partecipare attivamente, non tanto aspettando qui le eventuali persone che tornino magari con il problema, ma andando là, nell’Africa Occidentale, a portare un sostegno fattivo. E, soprattutto, quello che chiediamo agli italiani è che ci aiutino, inviando al numero 45507 un sms solidale per dare un contributo fattivo, chiaro per combattere una patologia come quella dell’Ebola.








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