2014-09-23 15:52:00

Zamagni: per creare lavoro incentivare le imprese sociali


La riforma del lavoro è sempre al centro del dibattito politico e sociale in Italia. L’assemblea del PD convocata oggi in Senato non si chiuderà con un voto, rimandato probabilmente alla prossima settimana. A intervenire sulla questione cruciale per la crescita del Paese sono stati ieri anche il presidente Napolitano e, all’apertura del Consiglio permanente della Cei, il card. Bagnasco. Per Draghi, l’uscita dalla crisi in Europa sta perdendo impulso e sono urgenti riforme da parte dei governi. Quella sul lavoro in Italia pare impantanarsi sulla questione dell’ art. 18. Ma oggi per creare nuovi posti di lavoro occorrono maggiori o minori diritti al lavoratore? Adriana Masotti ha girato la domanda all’economista Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna ed ex presidente dell'Agenzia per il terzo settore:

R. - Questo è un falso problema, così come viene impostato. La questione, nell’essenza, è la seguente: l’impresa capitalistica - per definizione - è una impresa nella quale il capitale controlla il lavoro. E’ chiaro che dentro il sistema di tipo capitalistico, l’imprenditore - a livello di principio - non potrà mai accettare di essere privato di quella che è la sua cifra, cioè il potere di licenziare. Ovviamente, questo imprenditore può accettare l’indennizzo, come appunto si sta realizzando. Ora, di fronte a questo, ci sono due atteggiamenti. Da un lato i rivoluzionari, che dicono “allora abbattiamo il sistema”. Dall’altro, la via della evoluzione, quella che si sta cercando di attuare in Italia, come peraltro negli altri Paesi in questi tempi, e cioè, passo dopo passo, arrivare a una configurazione che è quella verso cui dobbiamo andare, di sostanziale parità tra capitale e lavoro. Fra l’altro, questa è sempre stata la linea della Dottrina sociale della Chiesa. E’ chiaro che la tutela va garantita, però bisogna sempre dire quando tu puoi garantire le tutele subito, oppure gradualmente, come vogliono coloro che si chiamano riformisti e che favoriscono una trasformazione endogena del sistema.

D. - Riguardo proprio all’art. 18, questo è un diritto già acquisito: si tratta di tornare indietro o di evolversi verso altre forme di tutela?

R. - Se il principio sotteso all’art. 18 fosse così essenziale, come si spiega che in Italia l’80% dei lavoratori - che sono quelli che lavorano nelle imprese al di sotto dei 15 dipendenti - non ce l’hanno? Se una cosa è un valore, deve essere per tutti. E allora?

D. - E, infatti, una parte del Pd vorrebbe allargarlo a tutti, non toglierlo a quei pochi che ce l’hanno…

R. - Esatto. Torna in ballo il discorso di prima: lo so anche io che l’obiettivo deve essere la cooperazione tra capitale e lavoro, però questo obiettivo se lo impongo oggi vuol dire aggravare la situazione. Perché? Perché è chiaro che coloro i quali stanno da quell’altra parte, non faranno altro che boicottare, soprattutto il capitale straniero boicotterà l’Italia e quindi alla fine aggraveremo la situazione. Questo è il discorso: che dal piano dei principi passa a quello della realtà concreta.

D. - Quindi, lei è un riformista…

R. - Io sono per trasformare, perché se noi adesso facessimo partire un vasto e robusto settore di imprese sociali, questa storia dell’art. 18 non si sarebbe sollevata. Quello che importa non è l’art. 18, è dare il lavoro a tutti.

D. - La nostra Costituzione dice che siamo una Repubblica fondata sul lavoro e questo è bellissimo. Purtroppo, pare che oggi non sia più così…

R. - Molto opportunamente i padri costituenti misero in capo alla nostra Costituzione la famosa frase “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Venendo all’oggi, il problema è che le trasformazioni strutturali dell’economia dovute alla terza Rivoluzione industriale - la rivoluzione cioè delle nuove tecnologie infotelematiche e quel fenomeno di portata epocale che si chiama “globalizzazione” - mentre nel passato per produrre di più merci di ogni tipo occorreva creare posti di lavoro, oggi non è più così. Allora, di fronte a questo, siccome il principio base è che una società umana deve tendenzialmente essere una società della piena occupazione, bisogna creare quelle strutture lavorative diverse da quelle oggi dominanti, che sono le cosiddette “imprese sociali”, che producono beni e servizi ad alta intensità di lavoro nell’ambito sanitario, in ambito assistenziale, in ambito educativo, in ambito culturale e sportivo, dei beni naturali e culturali… Noi dobbiamo riproporzionare e invece ci intestardiamo maledettamente nel cercare di trovare un lavoro a tutti dentro i settori trainanti dell’economia di oggi. Ma questo è impossibile.








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