2014-10-07 14:54:00

Mons Tomasi: disarmare Is e impedire genocidio con aiuto islamico


Di fronte alla violenza e alle persecuzioni scatenate in Medio Oriente contro le popolazioni inermi la Chiesa non può restare in silenzio, così come la comunità internazionale non deve “rimanere neutrale tra gli aggrediti e l’aggressore”. Queste le parole del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, durante la Messa celebrata la mattina del 4 ottobre scorso, nella Cappella Paolina, assieme ai nunzi apostolici dei Paesi mediorientali, reduci dall’incontro in Vaticano con i superiori della Curia romana. Gabriele Beltrami ha intervistato mons. Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente vaticano presso gli Uffici Onu a Ginevra, che traccia un bilancio dell’incontro:

R. – L’incontro stesso è un segno di solidarietà della Chiesa con le comunità cristiane e con tutte le vittime della violenza che è in corso in Medio Oriente. Papa Francesco, che ha aperto i lavori, ha voluto sottolineare con la sua presenza la continuità con i suoi gesti precedenti: la visita in Terra Santa, l’incontro con i presidenti di Palestina e di Israele, quel continuo richiamo nei suoi messaggi alla necessità della pace in tutto il Medio Oriente, specialmente in Siria e in Iraq. Quindi l’incontro è stato l’occasione per un’analisi più approfondita della situazione, la ricerca di proposte etiche, operative ma nel contesto di una visione più completa che parte dal valore della persona umana a prescindere da qualsiasi orientamento e convinzione.

D. – Qual è la via preferenziale per far sentire la voce forte della Chiesa in favore del diritto alla vita e della libertà religiosa?

R. – L’obiettivo, chiaramente, è prima di tutto fermare la violenza in modo che in Medio Oriente si arrivi a una situazione che permetta lo sviluppo, la crescita economica e umana. Anche questi Paesi possono dare un contributo costruttivo alla comunità internazionale. La destabilizzazione in atto di interi Paesi, la “produzione”, direi quasi, di milioni di rifugiati e di sfollati pongono alla comunità internazionale e alla coscienza di tutti degli interrogativi nuovi. Prima di tutto, diventa urgente affrontare il cosiddetto Stato islamico, che è un po’ la causa immediata di delitti enormi orribili, dalla vendita delle donne al mercato, alla decapitazione di persone, alla violazione sistematica dei diritti umani più fondamentali e di crimini contro l’umanità. Quindi, la situazione è tale che suscita l’esigenza, non solo di gruppi particolari come le comunità cristiane, ma di tutta la società, a cercare una risposta. La strada per trovare delle soluzioni è molto complessa, perché le modalità di un possibile intervento si imbatte nella complessità della situazione politica: ci sono mercenari, ci sono conflitti regionali di competizione per il dominio della regione, ci sono interessi globali di grandi potenze internazionali che hanno interessi immediati nel Medio Oriente.

D. – Ci sono iniziative concrete che possono sensibilizzare governi e opinione pubblica, garantire pace e sicurezza, ponendo chi aggredisce in condizione di non nuocere ancora?

R. – Prima di tutto, direi che il primo passo è quello di coordinarsi per un’efficienza reale nel portare aiuti umanitari a queste comunità che sono state sradicate dalle loro case, dalle loro proprietà. Si avvicina l’inverno, per cui non possono rimanere sotto piccole tende o pezzi di plastica: per sopravvivere hanno bisogno di protezione di case e di mantenere vivo il principio fondamentale del diritto al ritorno. Ritorno non solo alle loro case, alle loro proprietà, ma anche a vivere con una certa sicurezza nei villaggi e nelle città da cui sono stati cacciati. Per cui, il secondo passo concreto è quello di capire come prevenire la possibilità di un genocidio di queste persone e di rendere realistica la possibilità di ritorno. Ma, per fare questo, bisogna eliminare o smantellare il controllo di questo gruppo fondamentalista e terrorista. E qui si pone il problema dell’uso della forza. Il Santo Padre dice che dobbiamo muoverci nella direzione di disarmare l’aggressore. Per fare questo non è necessaria una guerra, ma si possono utilizzare anzitutto sanzioni, togliere l’appoggio politico a questi gruppi fondamentalisti, non commerciare e comprare il petrolio che genera soldi grazie ai quali possono comprare armi e, soprattutto bloccare il traffico e l’invio di armi a queste persone. Evidentemente, l’uso della forza deve essere tale da poter ottenere un risultato positivo e di non fare un danno più grande di quello che si vuole correggere. Qui dobbiamo procedere tutti con molta prudenza e molta attenzione, in modo da non dare l’impressione che sia una guerra in difesa di interessi particolari. Per questo, penso sia importante che partecipino nell’azione i Paesi a maggioranza musulmana della regione, mostrando che questa è un’occasione importante per chiarire dal punto di vista della tradizione islamica che la violenza non è giustificata dalla religione, ma che si tratta di abusi, di approcci fondamentalisti per la ricerca soprattutto di potere.

D. – Molti giovani musulmani sparsi nel mondo stanno esprimendo, attraverso i social network, il loro dissenso verso quanto accade in Medio Oriente. Come legge  questa presa di posizione?

R. – Mi sembra che siamo arrivati a un momento cruciale per l’islam stesso. La crisi può essere un’occasione per mostrare la sua vera faccia che non è una faccia di violenza, ma di volontà  di essere una risorsa per le popolazioni che credono in questa religione.








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