2014-11-03 14:07:00

Suicidio Brittany. Medici cattolici: curare malato non solo malattia


Negli Stati Uniti e non solo, ha ricevuto ampia eco la storia della giovane 29.enne Brittany Maynard che, dopo la diagnosi di tumore al cervello, ha deciso di togliersi la vita. La ragazza si è suicidata come aveva annunciato in un video visto milioni di volte su Internet. Su questa drammatica vicenda, Amedeo Lomonaco ha intervistato il prof. Filippo Boscia, presidente dell’Associazione medici cattolici italiani:

R. – Oggi, noi paghiamo un prezzo molto alto allo sviluppo della medicina che ha reso possibile che la morte diventasse un periodo considerevolmente più lungo, cioè un processo del morire. Si costruisce un quadro di distruzione progressiva del corpo e questo contribuisce a far crescere l’angoscia. Questo rinforza la sofferenza e la solitudine. Questo prolungamento, che oggi è diventato costante, del periodo del morire ha proprio come conseguenza che la persona, in una fase di diagnosi così importante, debba affrontare un susseguirsi di perdite: è costretta a rinunciare ad una costellazione di attaccamenti, rischia di affogare. Quindi, il quesito è: a che scopo continuare a vivere, a che scopo aspettare? Credo che questa sia una ragazza lasciata sola. C’è bisogno, non soltanto, di fare delle diagnosi precise e di indicare delle medicine efficaci, ma occorre prendersi cura del malato. Il verbo “curare” è una voce del verbo “amare”. Curare materialmente una persona – forse – può far vincere una malattia, può anche farci fallire. Ma curare umanamente una persona non può che farci vincere. Se non c’è un sostegno consistente, allora il dolore diventa una barriera che mura il paziente in sé stesso e lo chiude nella sua solitudine, lo spinge ovviamente a chiedere l’eutanasia.

D. – E questa è una vittoria della sofferenza. Nessuna diagnosi giustifica il suicidio…

R. – Assolutamente no, perché la medicina compie tantissimi errori. Sono testimone di tantissime persone alle quali la medicina aveva dato sei mesi di vita, ma poi sono vissute 14 anni e lo hanno fatto con il sorriso. Persone che avevano anche perso la vista e che continuavano a ripetere ogni giorno: “Il Signore mi ha fatto vedere un nuovo giorno”. La medicina è diventata molto tecnologica e vorrebbe promettere quasi la vita eterna, però ha dimenticato essenzialmente la problematica dell’essere accanto al malato. In una società che diventa molto attenta al Pil, ai parametri di crescita economica, a tutto quello che si rivela economicamente conveniente, è chiaro che poi in una situazione di questo genere una spinta verso la "rottamazione" umana va completamente a convincere tutti che starebbero meglio se morissero.

D. – In una lettera pubblicata nei giorni scorsi, un seminarista cattolico di 30 anni, Philip Johnson, affetto da cancro al cervello come quello diagnosticato a Brittany scrive che “la sofferenza fa parte della condizione umana e non deve essere sprecata o tagliata via per paura di perdere il controllo”. Come possono i medici prendersi cura di questa sofferenza, di questo dolore?

R. – Credo che noi dobbiamo porre in essere dei percorsi per aiutare medici e pazienti. Non esistono malati incurabili. Forse esistono i malati inguaribili, ma pur sempre curabili. È proprio questo che oggi viene a mancare: il prendersi cura globalmente della persona che si trova di fronte ad una realtà così improvvisa, e direi brusca, come quella di una diagnosi di una sofferenza.








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