2014-11-04 12:50:00

Tra i giovani detenuti di Nisida ricordando Papa Wojtyla


“Nella memoria di Giovanni Paolo II” è il tema della manifestazione promossa dalla "Life Communication", in collaborazione col Dipartimento della Giustizia minorile del Ministero della giustizia, che si tiene oggi nell’Istituto penale per minorenni dell'isola di Nisida, nel territorio di Napoli. L’obiettivo è quello di ricordare la figura e l’opera di uno dei Pontefici più amati e diffondere i suoi messaggi alle nuove generazioni. Il servizio di Davide Dionisi:

Carissimi ragazzi e ragazze di Napoli, non abbiate paura! Siate giovani dal “cuore buono”! L’appello di Papa Wojtyla ai ragazzi di Napoli, pronunciato durante la sua visita pastorale in Campania del 1990, riecheggia oggi nei corridoi dell’Istituto penale per minorenni di Nisida, sede scelta per la decima edizione della manifestazione intitolata “Nella memoria di Giovanni Paolo II”. L’iniziativa, patrocinata dalla Conferenza episcopale italiana, in collaborazione con il Dipartimento della Giustizia minorile, si avvale del contributo di noti personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo e affronta un argomento molto caro al compianto pontefice: il lavoro. Un’occasione, dunque, per sensibilizzare non solo gli ospiti del carcere, ma tutti i ragazzi, ai problemi di Napoli e del suo hinterland. Ne è convinto il direttore di Nisida, Gianluca Guida:

R. – Noi abbiamo utilizzato questa opportunità per rilanciare in qualche maniera quello che era stato il messaggio di Giovanni Paolo II, quando venne in visita a Napoli alcuni anni orsono. Quelli furono giorni di grande speranza per la città. L’azione era quella di motivare di nuovo la città ad uno slancio nuovo. Questo è lo spirito con il quale noi abbiamo proposto ai ragazzi questa esperienza, questo ricordo di Giovanni Paolo II: avere una motivazione in più per ricominciare ad amare la nostra città e a creare condizioni nuove. Per noi, è stata l’occasione per far avvicinare i ragazzi in maniera diversa ai problemi della nostra città e leggere il loro impegno e la loro vicinanza alla sede come un impegno sociale. Non come semplicemente un’occasione di sostegno spirituale e di vicinanza spirituale, ma come una opportunità per rimboccarsi le maniche, loro per primi.

D. – Che realtà è quella di Nisida?

R. – Noi ospitiamo in questo momento circa 45 ragazzi e 5 ragazze, prevalentemente dell’area napoletana. Sono quindi ragazzi della zona, che hanno commesso per la maggior parte reati in maniera violenta contro il patrimonio o contro la persona. Ragazzi che sono cresciuti purtroppo nelle aree di disagio della città, nelle periferie, quelle periferie che possono essere tanto geografiche che esistenziali. Ci sono ragazzi, infatti, che provengono anche dall’area del centro storico, che periferia come tale non è, ma che purtroppo vivono anche in quel caso condizioni e situazioni di grave disagio. Sono ragazzi, quindi, profondamente intrisi della cultura della devianza e, in qualche caso, appartengono anche a realtà di criminalità organizzata.

D. – Secondo lei, un istituto di pena come quello che lei dirige riesce a recuperare la persona?

R. – Naturalmente, questa è una scommessa, un impegno. Io dico sempre che un istituto di pena non è una fabbrica di scatolette, quindi noi difficilmente possiamo dire alla fine della filiera se il prodotto sia riuscito o meno. L’uscita dalla devianza per una persona, ancor più per un ragazzo, è qualcosa che si può verificare nel tempo sulle scelte di lunga durata. Sicuramente, quello che noi in questi anni siamo riusciti a verificare è che il progetto educativo di Nisida riesce ad avvicinare i ragazzi, a dargli un tempo e uno spazio nel quale possono riprendere in mano la loro adolescenza, in qualche caso la loro gioventù - sono giovani, infatti, che vanno mediamente tra i 17 e i 19 anni - e recuperare quelle che sono le loro potenzialità. Noi ci siamo dati uno strumento operativo, che è quello della cura. Vogliamo che i ragazzi che sono ospiti del nostro Istituto di pena si sentano presi in carico, curati dallo Stato e dalle persone che lo Stato in quel caso rappresentano.  

D. – Barriere e pregiudizi: quale contributo può dare un direttore di un istituto di pena come lei per abbatterli?

R. – I pregiudizi sono tanti e alle volte sono anche giustificati, perché è inevitabile che un ragazzo che devia sia un ragazzo che fa paura. Quello che però è importante sapere è che, al di là dell’episodio deviante, del percorso deviante, sono uomini e donne che hanno anche un bagaglio esperienziale profondamente ricco e hanno delle potenzialità. Ognuno di loro ha una ricchezza estrema. La chiave di svolta è quella rappresentata dal fatto di poter insieme con loro creare le condizioni, perché riescano a mettere in campo le loro potenzialità e abbandonare le loro scelte devianti. La devianza, infatti, purtroppo, è anche una condizione di scelta personale.

Manifestazioni come queste, che rievocano gli insegnamenti di una figura tanto amata dai giovani, possono avere una funzione rieducativa. A sottolinearlo è don Fabio De Luca, cappellano del carcere minorile di Nisida:

R. – Certo che può avere una funzione rieducativa. Tutto il progetto educativo dell’Istituto penale minorile di Nisida si basa sulla proposta di valori su cui costruire o ricostruire, dopo aver demolito quello che non è stato costruito bene, la personalità dei ragazzi. Quindi, vengono proposti loro valori, quali quello della legalità, del rispetto, della solidarietà, anche del sacrificio, della disponibilità, che si ritrovano tutti pienamente nel Vangelo. Allora, in questo, può essere di aiuto grandissimo il cammino di fede che viene proposto ai ragazzi lì a Nisida, non solo da me, ma anche dai giovani seminaristi, che vengono dal seminario interregionale di Posillipo, che pure si affiancano a loro. Partendo da quello che vivono in quel momento, cercano di arrivare al Vangelo, a Gesù. Sono convinto che quello che Gesù ha vissuto, quello che Lui ha detto, quello che Lui ha promosso, possa aiutare tantissimi ragazzi nel ricostruirsi una vita.

D. - Quanto influisce in queste scelte devianti il contesto da cui provengono i ragazzi?

R. – E’ determinante. La maggior parte dei ragazzi che sono a Nisida provengono da quartieri molto difficili della città e della provincia di Napoli. E non è un caso che sia così. Spesso l’illegalità è lo stile di vita quotidiano di intere famiglie, alle volte di buona parte anche del quartiere. Un bambino che nasce, cresce, nutrendosi di questo stile di vita è ovvio che pensi che la sua vita sia questa o che si viva così. Questo la dice lunga sulla difficoltà nel cercare di aiutare un giovane a demolire le cose che non vanno nella sua vita, per poter invece ricostruire in una maniera nuova.

D. – Cosa vuol dire fare il cappellano a Nisida?

R. – Significa stare insieme ai ragazzi, vivere le loro situazioni, conoscere le famiglie, cercare di aiutarli a capire che la vita che hanno vissuto fino a quel momento non è certo la vita bella, la vita buona, la vita da gustare. Io con loro faccio sempre la differenza tra la “bella vita” e la “vita bella”. Loro forse hanno imparato che anche a costo del carcere o di essere ammazzati vale la pena fare la bella vita anche per un giorno, per un mese, per un anno, fino a quando non vengono arrestati. Quello che invece cerco di fargli capire è che è fondamentale invece la vita bella e che vale la pena, quindi, spendere ogni giornata, per arrivare alla vita bella, che è la vita felice, la vita nella gioia.








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