2014-12-26 16:15:00

Le vite messe in moto da don Puglisi nel nuovo romanzo di D'Avenia


E’ la Palermo del 1993 quella in cui si snoda “Ciò che inferno non è”, il nuovo romanzo di Alessandro D’Avenia, arrivato in libreria ed edito da Mondadori. Federico è uno studente di 17 anni con un professore di religione speciale: padre Pino Puglisi, chiamato “3 P”. Sarà proprio lui a chiedere a Federico di dargli una mano con i bambini del quartiere Brancaccio, dove forte è la presenza di Cosa Nostra, cambiando così la sua vita. D’Avenia è noto al grande pubblico per i suoi romanzi: “Bianca come il latte, rossa come il sangue” e “Cose che nessuno sa”. Debora Donnini lo ha intervistato:

R.  – La cosa interessante del romanzo era non tanto scrivere una pagina di cronaca che tutti conoscono ma riuscire a raccontare le vite messe in movimento, quelle dei bambini, dei mafiosi, dei ragazzi, da questo lavoro silenzioso e costante che don Pino faceva a Brancaccio e nella scuola dove io l’ho conosciuto, che era il Liceo Vittorio Emanuele di Palermo. Quindi, poi, quello che mi interessava era - da scrittore - capire come queste vite messe in movimento potessero diventare, attraverso la lettura, le vite dei lettori stessi e, quindi, che quello che per me era stato decisivo per decidere cosa avrei fatto della mia vita potesse succedere anche ai lettori di questo romanzo, in particolare i ragazzi, visto che poi la via di accesso è Federico che ha 17 anni quando succedono questi fatti.

D. – Questo romanzo si può definire un’epica del quotidiano, nel senso che i ragazzi che vengono a contatto, nel libro, con don Pino Puglisi hanno la possibilità di abbracciare una strada diversa rispetto a quella della mafia…

R. – Il discorso è che a Palermo se nasci in un quartiere come quello di Brancaccio non hai possibilità di scelta, perché vieni educato sin da bambino a comportarti, a vedere il mondo in un certo modo. La battaglia più grossa che faceva “3P”, padre Pino Puglisi, in quel quartiere era quella per la costruzione della scuola media. Eravamo in un quartiere in cui i bambini in quinta elementare abbandonavano la scuola e rimanevano per strada. E quello che accade in quelle strade è che si impara un codice che è quello della sopraffazione, dell’abbassare lo sguardo di fronte a certe persone. Lui invitava questi bambini ad alzare la testa. Diceva spesso questa cosa: dovete andare a testa alta perché la dignità che avete è la dignità che vi ha dato Dio. Quindi questa è la cosa fondamentale di quegli anni e che lui, poi, ha pagato con la vita, proprio per rendere liberi quei ragazzini. Io sono stato a Brancaccio un mese fa e a Brancaccio non è cambiato niente. Hanno arrestato 18 mafiosi, qualche settimana fa, però ho visto che quello che faceva lui si è tramutato nella vita di tanti ragazzi, perché c’erano liceali e universitari, che adesso fanno i volontari nel centro “Padre Nostro” che lui aveva costituito: hanno preso il testimone di don Pino.

D. - Nei suoi romanzi centrale è sempre la figura del professore, a volte più forte come nel primo, a volte un po’ più in crisi come nel secondo romanzo. In questo caso molto, molto forte perché il professore è don Pino Puglisi. Lei di mestiere fa l’insegnante. Quanto pensa sia importante oggi recuperare a tutti i livelli, in tutti i settori, nel lavoro, nella famiglia, la figura del maestro?

R. – Questo è il tema fondamentale e, probabilmente, anche il motivo per cui in tutti e tre i romanzi c’è questa figura di Virgilio, declinata poi in maniera diversa, a seconda del tipo di romanzo, perché siamo in un momento in cui - io lo vedo soprattutto stando in classe con i ragazzi - ci si sente orfani di padri che aprano la strada. Siccome mi rendo conto che siamo in un momento di grande disperazione - e forse anch’io stavo perdendo un po’ la speranza - mi sono detto: ma perché quello che è accaduto a me a quell'età non può diventare qualcosa che accade, attraverso la finzione letteraria, anche a tanti altri lettori? Questa era la sfida.

D. – Possiamo dire che “Ciò che inferno non è” è quello che fa sì che lo stesso don Pino Puglisi, come ogni persona, possa non disperare, ma anche nel quotidiano fare scelte che vanno verso la luce e non verso le tenebre?

R. – Il tema del sacrificio di “3P”, padre Pino Puglisi, per me non è tanto la sua morte, ma è quello che la parola sacrificio dice nella sua etimologia: il rendere sacro ciò che c’è già. E lui sapeva che questo erano i bambini del quartiere e i ragazzi del Liceo dove insegnava, ma non con facili idealismi di chi pensa che i bambini e i ragazzi siano buoni, ma portarli a dover decidere cosa fare della loro vita. Fino a che non porti un segno di discontinuità in un quartiere come quello in cui non si può neanche decidere.

D. – Questo veniva a don Pino Puglisi anche dal suo rapporto con Dio...

R. – Sì, è inevitabile, perché non riesci a scorgere il sacro nella vita di un altro se non percepisci quello sguardo su di te.








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