2015-01-17 12:15:00

Detenzione femminile in Italia: necessari radicali cambiamenti


E’ stato presentato a Roma 'Women in Prison', l’indagine condotta dall’Università degli Studi di Brescia sulla detenzione femminile in Italia che pone l’attenzione sulla componente meno considerata della popolazione penitenziaria, quella della donna. Ce ne parla Davide Dionisi:

La detenzione al femminile è emotivamente e fisicamente diversa rispetto a quella maschile. Per questo è quanto mai urgente una radicale trasformazione dell’attuale sistema penitenziario attraverso processi di natura politica ma, soprattutto, di azione amministrativa. E’ quanto è emerso dall’indagine condotta dall’Università degli Studi di Brescia sulle detenute in Italia, presentata ieri a Roma, nel corso di un forum sulla situazione carceraria femminile promosso da ACAT, Azione di cristiani per l’abolizione della tortura. Della condizione delle donne in carcere ne ha parlato Mauro Palma, vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia:

R. - Le donne vivono un doppio livello di difficoltà: innanzitutto, la difficoltà in sé, data dal fatto che il carcere, proprio come sistema, come regole, come concezione, è una punizione pensata per i corpi maschili e stentatamente adattata poi anche alle donne. C’è una falsa neutralità diciamo in questo atteggiamento, che fa pensare che il principio ugualitario si debba tradurre in un principio neutrale. Invece il principio ugualitario si deve tradurre sempre in un principio molto differenziato, perché diversi sono i bisogni dei soggetti, a partire dalle diversità di genere. Quindi questo è il primo livello di difficoltà. Il secondo livello di difficoltà sta nel fatto che le donne sono numericamente una porzione molto ridotta della popolazione detenuta: siamo intorno al 4,3 per cento. Questo comporta o scegliere la soluzione di avere istituti femminili totalmente per donne: ce ne sono cinque in Italia e allora, però, naturalmente, tali donne spesso sono distanti dal proprio luogo familiare. Avendo cinque istituti in tutta la penisola, è ovvio, infatti, che in molti casi ci sia una distanza. Oppure si sceglie l’altra soluzione: di avere sezioni femminili dentro un carcere, che è prevalentemente maschile. Allora in questo caso si ha maggiore vicinanza, però si ha anche una maggiore marginalizzazione. Essendo, infatti, una sezione all’interno di un carcere concepito per maschi, la minorità gioca un ruolo negativo.

Ma esiste un’emergenza carcere al femminile? Lo abbiamo chiesto a Massimo Corti, Presidente di Acat Italia:

R. - L’emergenza carceri al femminile non è la solita emergenza carceri, per cui si parla di sovraffollamento. Secondo me, l’emergenza carcere al femminile è adeguare il sistema carcerario alla specificità delle donne in prigione. La specificità delle donne in prigione è relativo al fatto che sono sicuramente meno pericolose degli uomini, che sono molto spesso vittime in precedenza di soprusi o violenze di vari tipi. Pertanto hanno bisogno di stare in prigione in maniera diversa, perché la loro sensibilità è fortemente diversa. Poi, c’è il problema della maternità, che è un problema enorme, per cui da affrontare in maniera specifica. Questa è l’emergenza delle donne.   

 D. - Le donne in carcere spesso vivono un doppio dramma: quello della detenzione e quello dell’essere mamme non in grado di svolgere il proprio ruolo. In che modo deve cambiare il sistema, per venire incontro alle loro esigenze e per alleviare le loro sofferenze?

R. - I modi per alleviare la doppia sofferenza delle madri sono tanti e molti sono allo studio. Tipico, per esempio, è avere delle case dentro l’istituto carcerario, delle abitazioni per la famiglia oppure delle detenzioni alternative alla normale prigione. Un’idea che è stata ventilata ieri durante il convegno, e che viene attuata in India per esempio, è di avere visite quotidiane delle famiglie alle madri in carcere. In alcuni Stati i figli possono andare in prigione a fare i compiti insieme alla madre e in uno Stato addirittura ci sono delle scuole dentro la prigione, cui partecipano non soltanto i figli dei carcerati, ma i figli dei secondini, i figli degli addetti, i figli dei paesi vicini. Il bambino, quindi, non si sente isolato, prigioniero o ghettizzato.








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