2015-02-05 11:24:00

Don Iannone: Concilio attuale, insegna ad aprirsi sempre


Il Concilio Vaticano II ha ancora tanto da dire ai cristiani di oggi. Lo sottolinea don Francesco Iannone, sacerdote della diocesi di Nola, nel suo libro “Una Chiesa per gli altri. Il Concilio Vaticano II e le religioni non cristiane”, pubblicato da Cittadella, dove affronta il tema delle relazioni tra Chiesa e religioni non cristiane. Tiziana Campisi gli ha chiesto di spiegare il perché di questo titolo e di raccontare dell’incontro avuto con il Papa emerito Benedetto XVI che ha ricevuto in dono il volume:

R. – Gli altri sono fondamentalmente i non cristiani, sono coloro che per la prima volta sono entrati in un Concilio, perché il Concilio Vaticano II è il primo Concilio della storia in cui c’è stata un’attenzione per i non cristiani e per le loro religioni. Allora, la mia intenzione è stata quella di interrogare il Concilio Vaticano II, i suoi testi, quelli che parlano precisamente delle religioni non cristiane: cioè, "Lumen gentium" 16, "Nostra Aetate", "Gaudium et Spes" 22, "Ad Gentes" 7. Di questi quattro testi, io ho fatto un’analisi per andare a scoprire cosa il Concilio ha veramente detto sulle religioni non cristiane.

D. – Cosa ci dice oggi il Concilio Vaticano II circa il modo in cui rapportarsi alle altre religioni?

R. – Il Vaticano II, a mio avviso, dà tre indicazioni, attualissime. Recuperare il fatto che il Dio di Gesù è un Dio per tutti. Una teologia della creazione che fa riscoprire la comune vocazione, il comune destino di tutta l’umanità: veniamo tutti da Dio e tutti a Dio andiamo. Questo mi sembra il fondamento teologico più vero per un rapporto con i non cristiani, che permette uno sguardo buono, positivo, sulle loro religioni. Al di là delle deviazioni a cui stiamo tristemente assistendo, in ogni religione, il Concilio ritiene che c'è qualcosa di vero, di buono, di bello, grazie all’azione del Verbo eterno che, avendo creato il mondo, ha immesso nel cuore di ogni uomo semi di verità che conducono alla pienezza. La seconda indicazione che il Concilio dà, a mio avviso, è quella di uno stile: il dialogo come stile, il dialogo che non è dimenticare le differenze o un generico invito a volersi bene, ma il dialogo che è la reciproca capacità di ascoltarsi e di ascoltare per camminare insieme verso una verità che nessuno di noi possiede ma che ci è donata. La terza indicazione è quella di riscoprire il progetto di Dio che è un progetto di comunione: Dio vuole salvarci come popolo. E - Papa Francesco lo ricorda con grande forza - la capacità di incontrare le persone diventa il modo in cui la Chiesa vive nel mondo. Se la Chiesa vive nel mondo è perché è a servizio di un incontro. La vocazione della Chiesa è quella di rendere possibile l’incontro dell’umanità con Dio e degli uomini tra di loro.

D. – Lei ha voluto far dono del suo libro a Benedetto XVI. Ha scritto una lettera, ha inviato una copia del suo libro e ha ricevuto una risposta…

R. – Sì, ho ricevuto una risposta che ancora mi sorprende. C’è stata una telefonata alla fine di gennaio: venivo invitato a incontrare il Papa emerito e quindi ho avuto la possibilità di incontrarlo, di scambiare con lui qualche parola sul senso della ricerca teologica, sul senso del cammino della Chiesa, sul senso del Concilio. Benedetto rimane colui che ha tenuto alta l’esigenza di un dialogo tra fede e ragione, ha tenuto alta l’esigenza di un dialogo tra fede e cultura. In qualche modo, incontrare Benedetto è incontrare il grande testimone di una fede che pensa e di un pensiero che si allarga alle dimensioni dell’assoluto.

D.  – Che cosa conserverà in particolare di questo incontro?

R. – Conserverò di questo incontro ciò che Benedetto mi ha detto. Quando gli ho chiesto “Santità, come sta?”, la risposta è stata - non rivelo un segreto - “Come sta un uomo di 88 anni che con la sua preghiera però riesce ancora ad abbracciare il mondo intero”. La sua fiducia, la sua fede nella preghiera che abbraccia il mondo intero è qualcosa che mi porto dentro, anche come grande viatico per la vita personale.

D. – Quale suggerimento può darci da estrapolare dal suo libro?

R. – Non stancarsi di dialogare, non stancarsi di ascoltare, non fermarsi a diagnosi superficiali, non lasciarsi tentare dalla paura dell’altro, dalla paura del diverso. Credere che in ogni diversità, in ogni alterità è nascosta una parola di Dio per noi, è nascosta una chiamata all’uscita da noi stessi – come direbbe Papa Francesco – per andare incontro all’altro, perché l’altro è sempre cifra di quell’Altissimo Altro che noi chiamiamo Dio.








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