2015-02-06 12:28:00

Oms: mutilazioni genitali subite da 130 milioni di donne


E’ una pratica disumana e crudele, eppure ancora molto estesa nei Paesi di origine, ma anche in quelli dove forte è la presenza di immigrati, come l’Europa. Il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili riguarda nel mondo, secondo dati Oms, circa 130 milioni di donne, tre milioni le bambine che sono esposte al rischio ogni anno. In Europa le donne sono circa mezzo milione, di cui 50 mila in Italia. 29 i Paesi coinvolti, soprattutto Egitto, Eritrea, Mali, Sierra Leone e nord del Sudan, dove sono state mutilate oltre l’80% delle donne. Numeri impressionanti, e per questo oggi le Nazioni Unite celebrano la Giornata mondiale contro le mutilazioni femminili. Francesca Sabatinelli ha intervistato Giovanna Dal Molin, docente di Demografia sociale a Scienze della comunicazione dell’Università di Bari, nonché direttore del Cirpas, il Centro interuniversitario di ricerca su Popolazione, ambiente e salute:

R. – Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un rituale di ingresso, un passo ritenuto necessario per far crescere correttamente una bambina, proteggerla e, in molti casi, renderla idonea al matrimonio. L’osservanza di questa pratica genera approvazione sociale, rispetto, ammirazione e preserva la reputazione sociale di una bambina e della sua famiglia presso la comunità. E’ un fatto tipicamente culturale. Il rifiuto di conformarsi all’usanza può portare all’esclusione sociale, alla disapprovazione e, in alcuni casi, alla violenza. Quindi, le mutilazioni genitali femminili sono una componente primaria del matrimonio in Africa, è chiaro che si parla delle zone chiuse dell’Africa. Il valore di una sposa, in alcune società, dipende ancora dalla sua verginità. In queste società chiuse sono proprio le donne le più convinte sostenitrici della pratica: accettano e vogliono la mutilazione, sopportando anche il dolore, pur di allontanare l’eventualità di una emarginazione della comunità.

D. – Come mai oggi, a dispetto delle tantissime campagne di informazione messe in atto nei Paesi maggiormenti interessati dal fenomeno dalle istituzioni, dalle Ong internazionali, dalle Nazioni Uniti e anche dalle Ong locali, questa pratica è ancora così estesa?

R. – Diciamo che sono stati fatti già dei passi notevolissimi, in tutti i Paesi la mutilazione genitale femminile viene considerato un reato gravissimo. Per cui c’è un processo di riduzione del fenomeno che rimane ancora così diffuso perché è un fatto realmente culturale e accettato dalle donne. C’è molto da fare ancora. Ma posso assicurare che è stato fatto moltissimo e che tutto questo fenomeno si va evolvendo, anche se lentamente, in positivo. Occorrono ancora campagne perché sia chiaro anche che il fenomeno culturale è un fatto che vede, in questo caso, la donna subalterna all’uomo e una forte disparità di sesso, in cui la donna ancora viene considerata merce: è proprio questo che deve cambiare.

D. – Ormai da tempo le mutilazioni genitali femminili vengono eseguite anche nei Paesi europei e questo a causa delle migrazioni. Uno degli ultimi allarmi, in questo senso, è arrivato dalla Svezia: le autorità sanitarie svedesi si sono rese conto dell’altissimo numero di immigrate che tornano nei Paesi di origine per procedere a questa pratica e che poi rientrano in Svezia. Così anche in Italia, dove inoltre si procede alle mutilazioni clandestinamente. Quindi, neanche in Italia si riesce a fare prevenzione?

R. – Ritorniamo sempre al discorso di dipendenza da questo ruolo e di accettazione del fenomeno. In Italia è stata condotta una ricerca nel 2009 dal Ministero per le Pari Opportunità e si è valutato che su circa 110 mila donne africane soggiornanti in Italia, provenienti da Paesi di tradizione scissoria, oltre 35 mila sono le donne che hanno subito questa pratica o prima di arrivare nel nostro Paese o durante il soggiorno, tornando nei Paesi di origine, o nella stessa Italia. Sono più di mille le bambini e le giovani di meno di 17 anni che rischiano di essere sottoposte a tale pratica. E stiamo parlando dell’Italia, quindi, questo è ancora il discorso operante.

D. – Uno degli aspetti che ha sollevato polemiche è stato anche il tentativo di cercare delle pratiche alternative, secondo potrebbero queste far scemare la percentuale?

R. – Sicuramente ridurrebbero il discorso del danno fisico, in passato c’è stata l’idea di autorizzare addirittura la sperimentazione di una sunna simbolica, questo è avvenuto a Firenze, da parte di un ginecologo somalo. Si tratterebbe di sostituire il danno fisico con una sorta di sunna rituale, una puntura di spillo nell’area clitoridea in particolare. Io sono nettamente e drasticamente contraria, sia perché questo comporta sempre una violazione del fisico, sia sul piano simbolico, che è la cosa più importante, perché secondo me attesta una condizione di inferiorità femminile e un intollerabile dispotismo maschilista. Deve cambiare proprio l’idea e la donna non deve essere considerata come merce di scambio. E’ proprio il discorso culturale che deve cambiare.








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