2015-02-20 13:55:00

Libia. Nuovo attentato dell'Is provoca 40 morti


Libia ancora nel caos: un triplice attentato nell’est del Paese, rivendicato dall’Is, ha provocato almeno 40 morti e 70 feriti. Intanto, lo Stato islamico ha ultimato la conquista di Sirte, imponendo dalle 20 ora locale il coprifuoco totale. Stati Uniti, Ue ed Egitto d'accordo sulla medizione politica. Il servizio di Cecilia Seppia:

Tre autobomba quasi simultanee sono esplose ad Al Qubah, una cittadina nell’est della Libia, provocando decine di vittime, quasi tutte civili: è l’ultimo atto di terrore in ordine di tempo compiuto e rivendicato nel Paese nordafricano dallo Stato islamico che, stando al governo di Tobruk, starebbe velocemente guadagnando terreno. L’attentato ha preso di mira soprattutto il quartier generale della sicurezza e una stazione di servizio. Totalmente in mano ai jihadisti è anche Sirte, dove da questa sera entrerà in vigore per volere del’Is il coprifuoco totale. Il premier Al Thani accusa i deputati del parlamento di Tripoli a guida islamica, non riconosciuto ufficialmente, di “non volere il dialogo di pacificazione mediato dall’Onu”. La violenza dilaga anche sul fronte iracheno: nell’ultima settimana per mano dei jihadisti sono state uccise 150 persone. Washington non esclude di voler partecipare alla riconquista della città di Mosul, dove si ritiene che siano asserragliati circa duemila jihadisti sunniti, mentre un’offensiva tutta irachena potrebbe arrivare a maggio, al termine di una fase di addestramento. La violenza efferata dell’Is continua a viaggiare sul web, con minacce dirette anche a Roma.  Usa, Ue ed Egitto dopo l’incontro a Washington hanno ribadito pieno sostegno alla mediazione dell’inviato speciale dell'Onu in Libia, Bernardino Leon, per un governo di unità nazionale. “Bisogna restare uniti nel combattere la piaga del terrore”, aveva detto ieri il presidente americano, Barack Obama, che ha accusato lo Stato islamico di “genocidio”. 

“Non c’è più tempo per trascurare la situazione tragica umanitaria e sanitaria che da mesi regna in Libia, la stabilizzazione del Paese è necessaria soprattutto per la popolazione. E’ quanto dice il prof. Aldo Morrone, presidente dell’Istituto mediterraneo di ematologia, che più volte è stato ed ha operato in Libia. La sua testimonianza al microfono di Cecilia Seppia:

R. – Purtroppo, la situazione sanitaria, negli ultimi tre anni, è decisamente peggiorata. C’è stato un tentativo di rialzarla attraverso l’assunzione di medici ed infermieri dalle Filippine, dopo che i medici locali sono fuggiti, ma la situazione è degenerata. Adesso non c’è un’assistenza sanitaria né per i libici, né per quell’uno o due milioni – probabilmente – di immigrati irregolari che sono presenti sul territorio libico. Oltre alle medicine, quello che soprattutto comincia a scarseggiare sono le risorse alimentari: non c’è da mangiare e non c’è acqua potabile per tutti. La situazione è drammatica e questo determina anche un peggioramento delle condizioni di salute di chi già poteva sufficientemente vivere.

D. – Gli ultimi degli ultimi, in questo scenario di conflitto, sono proprio i migranti. Però, ci si deve interrogare anche sulla popolazione locale: penso a Sirte, stretta sotto assedio in questi giorni dalla Stato islamico… Anche lì, sul terreno, immagino che la vita dei bambini, delle donne e degli adulti sia difficile e che non ci sia possibilità di curarli…

R. – Quello che abbiamo trovato noi è stata una situazione drammatica ed erano i giorni del conflitto tra le forze lealiste di Gheddafi e le forze rivoluzionarie. Successivamente, abbiamo lavorato altri due anni per tentare di collaborare alla formazione e alla strutturazione di un servizio sanitario che potesse essere, in qualche modo, universale per tutti. Ma ovviamente accadeva che soltanto le persone che potevano permetterselo avevano un servizio sanitario, gli altri no. All’interno di questo, pagavano un prezzo gravissimo i libici più poveri e gli immigrati. All’interno di questa situazione ancora più drammatica, soprattutto le persone ferite dalla guerra – e quindi ferite, ustionate o comunque con patologie legate agli eventi bellici – erano quelle meno curate…

D. – Lei è stato lì diverse volte nel dopo-Gheddafi, in una fase anche molto caotica. Che Paese ha trovato?

R. – Quello che ho trovato, da una parte, è stato un Paese con un forte entusiasmo di tentare di ritrovare democrazia e partecipazione, dall’altro una situazione che lentamente è andata sempre più in una prospettiva di caos totale, con gli studenti – soprattutto uomini, ma anche donne – che avevano una grande volontà di cambiare il Paese, di restituire dignità, salute, investimenti proprio sulla sanità. In questo Paese ho incontrato diverse volte i responsabilità della sanità locali, che sono stati poi mortalmente umiliati in questi ultimi mesi.

D. – Durante i bombardamenti, sono andati distrutti anche alcuni ospedali. Dove vengono curati i feriti, i sopravvissuti, quando non c’è una struttura sanitaria che li possa accogliere?

R. – Devo dire che i pochi medici che continuano a rimanere lì sono straordinari, sono degli eroi, così come lo sono gli infermieri, che ho conosciuto personalmente, perché anche nelle condizioni degli ospedali, della parte sana che è rimasta e che non è ridotta in macerie, riescono ad intervenire. Io ho delle riprese – e alcune immagini me le hanno mandate proprio in questi giorni – di interventi chirurgici di urgenza nelle condizioni più drammatiche e in posti improbabili.

D. – Qual è il suo appello? Che cosa si deve fare in questo scenario?

R. – E’ un Paese che è grande quasi sei volte l’Italia, con una popolazione di soli 5-6 milioni di abitanti, più 1-2 milioni probabilmente di abitanti irregolari, di cui non abbiamo notizia, e che sono poi gli immigrati che vengono sfruttati in Libia. C’è bisogno di una partenza, di un impegno da parte dell’Occidente, di un impegno da parte di Stati Uniti e da parte delle Nazioni Unite in particolare per dare stabilità e fiducia a questo Paese, investendo però in questo Paese, e una soluzione politica che consenta di eliminare questi scontri, che già c’erano quando noi eravamo lì – dal 2011 al 2013 – tra le diverse fazioni. Ricordo ed è un punto importante: vengono ancora utilizzate armi che erano state vendute al regime di Gheddafi e poi ovviamente procurate dai vari gruppi prodotte in Occidente.








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