2015-02-21 14:17:00

50 civili arsi vivi dall'Is in Iraq. Parigi: minaccia vicina


Ancora violenza in Libia: sotto attacco in queste ore da parte dello Stato islamico l’aeroporto di Beida nel nord-est e secondo fonti militari i jihadisti punterebbero a colpire la sede del Parlamento di Tobruk. E dall’Iraq arriva un’altra drammatica notizia: l’Is avrebbe arso vivi 50 civili nella provincia di Anbar. Intanto Francia e Italia rilanciano la soluzione politica ma ribadiscono: la minaccia è vicina ai nostri confini. Cecilia Seppia:

Siria, Iraq, Libia e poi l’Egitto, lo Yemen, la Nigeria, il Mali, la Somalia: la mappa del terrore sotto la bandiera nera dello Stato islamico continua a diffondersi, così la minaccia di morte e conquista che viaggia sul Web. Parigi, con il ministro dell’Interno Cazeneuve chiede al colosso Google di collaborare direttamente con gli investigatori francesi e di rimuovere la propaganda terroristica dell’Is dai rispettivi siti, compresi Youtube, Facebook e Twitter, mentre su quest’ultimo spopola l’hashtag "Arriviamo a Roma". In Libia intanto si combatte ancora, i jihadisti hanno lanciato 6 razzi Grad contro l’aeroporto di Beida e guadagnano terreno: l’obiettivo sembra ora la sede del governo del premier Al Thani, a Tobruk. Dall’Iraq l’altra ennesima scioccante notizia di 50 civili arsi vivi dall’Is a Hit, nella provincia occidentale di Anbar, la stessa dove nei giorni scorsi sono state uccise 150 persone. A finire sotto le mani dei miliziani anche due giovani a Mosul accusati di voler organizzare una rivolta contro l'Is. Nessuna novità invece dalla Siria sulla sorte della giornalista svedese rapita dai miliziani. Francia e Italia rilanciano la soluzione politica ma ribadiscono: la minaccia è vicina ai nostri confini. Preoccupazione è stata espressa dal presidente della Cei Angelo Bagnasco: "l'Is, ha detto il porporato, questa espressione ideologica, fanatica e fondamentalista, esercita su non poche menti un fascino turpe e brutale", serve ha aggiunto "una riflessione da parte dell’Occidente".

Abbiamo chiesto a Stefano Silvestri presidente dell’Istituto affari internazionali, di tracciare una mappa del terrore creata dai jihadisti dello Stato islamico anche noto come movimento "Daesh":

R. – Il movimento di Daesh è più strettamente territoriale, cioè punta alla conquista di territori da strappare agli Stati esistenti mettendo in dubbio la legittimità di questi Stati e creando nuovi Stati rivoluzionari, che poi vengono presentati come “vilayet” , le province del nuovo Califfato, come degli emirati. In questo momento molti sono solo realtà sulla carta, fanno riferimento a micro-gruppi o a personalità abbastanza isolate. I fenomeni più interessanti sono quelli che si stanno svolgendo in Yemen dove c’è un conflitto, tra l’altro, tra qaedisti e Daesh; c’è quello che si sta svolgendo in Libia e probabilmente nel Mali; ci sono poi altre aree che sono in movimento, per esempio in Somalia…

D.  – Come sappiamo l’Is ha un sistema di comunicazione molto forte, alcuni proclami rilanciati sui social network si sono rivelati fondati. E qualche giorno fa circolava su Twitter l’hashtag “Arriviamo a Roma”. Quanto può essere credibile questa minaccia e, in generale, quanto possono essere credibili le minacce che lo Stato islamico fa attraverso i media?

R. – Il grosso delle minacce, delle uccisioni, dello Stato islamico riguardano il tentativo di tenere sotto controllo e terrorizzare i propri combattenti, le proprie truppe, le quali - siccome non sta andando molto bene sul campo di battaglia - hanno una certa tendenza in alcuni casi a disertare. Questa è una cosa che lo Stato islamico non può accettare e quindi la presenta in chiave trionfalistica come uccisione di traditori e altre fesserie del genere, però è propaganda allo stato più evidente. A questo aggiunge minacce contro l’Occidente che dipendono in realtà non tanto dalle capacità dello Stato islamico - che non ha grosse capacità di attaccare l’Occidente, direi anzi che non ne ha proprio al di fuori dei territori in cui agisce - ma dovrebbero servire di stimolo a terroristi locali i quali decidano di seguire l’indicazione di massima fatta dallo pseudo-califfo e desiderano quindi di passare a un attacco terroristico, come è stato fatto a Parigi, a Bruxelles, a Copenaghen.

D.  – Il presidente americano Barack Obama è stato attaccato perché quando parla dell’Is non parla dell’estremismo islamico piuttosto di estremismo violento o comunque usa altre espressioni. C’è in questo secondo lei un non voler enfatizzare l’aspetto religioso dello Stato islamico per ragioni politiche o strategiche?

R. – Sì, certamente c’è questo elemento. Rimane il fatto che all’interno del mondo musulmano ci sono forti divisioni e forti lotte. Allora, credo che il tentativo di Obama sia quello di dire: “non mi immischio, io combatto i terroristi, poi se questi vogliono essere trattati come islamici, sono fatti loro”. Non sono completamente d’accordo perché in realtà è proprio questo loro appello alla loro islamicità che li rende così capaci di attrarre giovani, nuove reclute, insomma, ma soprattutto che li rende così pericolosi per gli Stati della regione.

D . – La questione della leadership si è dibattuta molto in questi giorni. E’ giusto che qualche governo occidentale prenda le redini di questa crisi?

R. - E’ difficile immaginare che questa crisi possa essere risolta senza un accordo di tipo multilaterale, che deve coinvolgere non solo Stati occidentali ma anche altri Stati: dovrà coinvolgere in qualche maniera anche la Russia, se possibile, naturalmente la Cina, alcuni Stati asiatici, importanti, musulmani e non musulmani. Però è anche chiaro che bisognerà che qualcuno prenda l’iniziativa di sviluppare una simile coalizione e definire gli obiettivi condivisi da tutti. Questo è più un lavoro che da Stato abbastanza consistente, in sostanza è un lavoro da grande potenza.








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