2015-03-27 14:10:00

Crisi in Yemen. Il presidente Hadi arrivato in Egitto


Circa 40 civili sono rimasti uccisi nelle ultime 36 ore in Yemen per i raid aerei della coalizione sunnita guidata dalla Arabia Saudita. Si combatte contro i ribelli sciiti Houthi che hanno costretto alla fuga, dalla città di Aden, il presidente Mansur Hadi. Il capo di Stato dopo l’Oman è arrivato a Sharm el Sheik, in Egitto, dove domani prenderà parte al summit dei Paesi arabi. Massimiliano Menichetti ha intervistato Giuseppe Dentice, dell’Istituto affari internazionali:

R. – Lo Yemen è in una situazione di instabilità dettata da diversi piani paralleli. A scontrarsi sono situazioni diverse: non vi è solo la classica e ormai nota dimensione tra sunnismo e sciismo che si confrontano, ma vi sono anche situazioni diverse legate a fattori clanico-tribali, a situazioni d’instabilità legate a fattori anche terroristici – alla luce anche degli attentati di venerdì scorso di questa cellula affiliata allo Stato islamico – nonché rivendicazioni legate a movimenti indipendentisti come quelli di Aden, che richiamano un po’ le situazioni degli anni Sessanta tra Yemen del nord e Yemen del sud. E infine, e questo non è un fattore minore, vi sono confronti duri tra uomini legati al governo legittimo del presidente Hadi e forze legate invece all’ex presidente Saleh, che viene ritenuto in un certo senso una sorta di deus ex machina della situazione di instabilità, che ha aiutato – in questo senso – a finanziare, ad armare o comunque ad agevolare strategicamente l’avanzata degli houthi, prima nella capitale Sana’a e poi ad Aden.

D. – In questo quadro, è forte la presenza internazionale: gli Usa forniscono supporto logistico, ma è l’Arabia Saudita a guidare la coalizione contro i ribelli…

R. – L’Arabia Saudita da sempre considera lo Yemen il proprio “cortile di casa”. Quindi, un intervento saudita – in un certo senso mascherato dietro questa coalizione di 10 Stati, alla quale partecipa anche l’Egitto, altro attore non secondario in questa situazione – ricopre un ruolo naturale. L’Arabia Saudita, che è il finanziatore e anche lo "sponsor" politico dell’Egitto, e lo stesso Egitto si confrontano in Yemen contro il "soft power" iraniano. Quindi, il ruolo dell’Arabia Saudita non è un ruolo di novità in questo senso, ma è un ruolo tradizionale nel quale punta a dimostrare l’egemonia all’interno dell’area di propria afferenza che in questo caso è il Golfo. E lo Yemen è nel cuore del Golfo.

D. – L’Arabia Saudita gioca un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda altri conflitti che sono aperti come in Iraq e Siria…

R. – Non solo Iraq e Siria, ma anche, appunto, in Libano dove comunque si confrontano milizie sunnite e sciite: milizie sciite come quelle di hezbollah, appoggiate dall’Iran, e milizie sunnite appoggiate dal governo che è finanziato a sua volta dall’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita – tanto per fare un esempio – ha finanziato un progetto da tre miliardi di dollari per armare e ammodernare gli armamenti dell’esercito libanese. Lo Yemen è solo una pedina di questo grande scacchiere di “guerre per procura” che si combattano ormai in Medio Oriente.

D. – E’ necessario creare un tavolo di confronto per ricomporre le diversità? Ci sono stati appelli in questo senso, anche se poi sono seguite le bombe…

R. – Dire che la risposta militare è la risposta più ovvia è evidente, però non è la soluzione. In questo caso, l’Arabia Saudita cosa può fare? E la sua colazione? Contenere la minaccia? Benissimo! Però, fra 1-2 anni il rischio è quello che ci ritroviamo esattamente la stessa situazione. L’unica soluzione è quella di tornare all’antica strada della diplomazia: il dialogo fra tutte le parti. Bisogna creare le condizioni per un dialogo inclusivo. Questo è il caso dello Yemen, ma possiamo tranquillamente trasferirlo alla Libia, all’Iraq e così via…

D. – Da non sottovalutare anche il ruolo dell’Egitto…

R. – L’Egitto si sta muovendo in Yemen in una situazione alquanto paradossale, perché per quanto possa essere importante per la sua strategia anche di politica estera – ossia il controllo dell’area di  Bab el-Mandeb, che è lo stretto da Gibuti e Yemen, che praticamente introduce verso il Mar Rosso e quindi verso il Canale di Suez – l’interesse egiziano, da un lato, si inserisce in una situazione di sicurezza dei propri approvvigionamenti e non solo petroliferi, ma anche economici – data appunto la presenza del Canale di Suez – ma dall’altro anche in una situazione di accerchiamento di tutte quelle milizie sunnite che dallo Yemen, attraverso l’Arabia Saudita, sono arrivate fin nel Sinai. Il protagonismo dell’Egitto non è un fattore secondario in questo scenario yemenita. E’ chiaro che allargando l’orizzonte, bisogna anche ricordarsi cosa accadde nel ’62-’67, quando in piena rivoluzione yemenita, l’Egitto subì una sconfitta umiliante da parte delle milizie yemenite. Quindi, tenderei a non sottovalutare il ruolo e le conseguenze che potrebbe avere l’Egitto in tutta questa situazione. 








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