2015-04-01 17:00:00

Clausura: niente campana di vetro. Litighiamo e ridiamo


"E’ stato un episodio che fa sorridere, pompato dai media. Si poteva evitare forse, ma non mi pare sia stato così rilevante. In fondo le suore hanno semplicemente fatto festa al Papa. Del resto, non ci stupiamo di tutto il polverone scaturito. Un certo stereotipo di clausura è ancora molto in auge e tutto ciò che si riferisce a questo mondo, sempre più sconosciuto, fa audience". A Cortona (AR), entriamo nel monastero di clarisse, e colloquiamo con la badessa, madre Benedetta, e con la vicaria suor Cristina. Con loro commentiamo il botta e risposta - all'indomani della visita pastorale di Francesco dello scorso 21 marzo - tra le clarisse cappuccine di Napoli e la comica Luciana Littizzetto. L'abbraccio affettuoso al Pontefice durante l'incontro con i religiosi nel duomo, le battute di Luciana sulle suore 'represse', poi il risentimento espresso sul profilo facebook e l'invito al confronto da parte delle monache, le scuse in tv della Littizzetto e, a chiudere, il ringraziamento, sempre in rete, delle claustrali 'per il modo garbato, ironico ma gentile, divertente ma sentito'. 

"Sono consapevole che negli ultimi tre secoli la vita claustrale si è posta in una maniera per cui a volte si è potuto dar ragione a dei giudizi di immaturità, di infantilismo per persone ‘messe dentro’ perché incapaci di vivere una vita umana femminile naturale. Ma la vita in clausura non è tutta qui, e soprattutto non lo è in questi anni, nel nostro tempo", spiega suor Cristina. "Il problema della maturazione umana integrale e, in particolare affettiva, è fondamentale per ogni essere umano che deve perseguire uno sviluppo armonico e pieno. Chiaramente la suora è più sotto i riflettori perché la stessa scelta di castità nella vita religiosa viene irrisa. Scegliendo noi di non avere una vita di relazione con una persona dell’altro sesso, siamo considerate delle mosche bianche. Da qui l’insinuazione che una dimostrazione di affetto - come lo è stata quelle delle monache di Napoli – viene vista come espressione di una frustrazione incontenibile. Non si conosce questo mondo e si va per slogan ed etichette. L’invito è dunque a conoscerlo di più, ma non per dire anche noi siamo uguali agli altri, non è una questione di confronti, è semplicemente una questione di conoscenza reciproca che può giovare a tutti". 

Perché lo conosciamo poco? "Il deficit di comunicazione da parte nostra in tre secoli c’è stato ma non esagererei puntando il dito. Prima del Concilio i monasteri esistevano perché pregavano per una tal persona, una tal situazione, e basta. Il valore era non essere viste e non farsi vedere. Una visione di Chiesa più articolata che valorizza i diversi carismi e ministeri ha riscoperto poi il significato e il ruolo dei monasteri e degli Istituti di vita contemplativa all’interno della Chiesa e del mondo. Non sono più quelle cittadelle inviolabili e inaccessibili. Certo, bisogna andarci e questo chiede un desiderio, una volontà".

"Noi viviamo una preghiera incarnata, non è che preghiamo per tutti perché vogliamo a tutti bene. La nostra preghiera è calata nella nostra vita, anche nelle nostre scelte della vita quotidiana: la condivisione con i poveri, gli umili. Ci rendiamo conto, in effetti, che pur avendo scelto una vita di povertà, è spesso difficile vivere di povertà nei nostri ambienti perché non ci manca proprio nulla e la provvidenza davvero è abbondante. La questione è allora mettersi in discussione e vivere ogni giorno la sottolineatura dell’ecclesiologia e della missionarietà voluta dallo stesso Papa Francesco. Oggi le persone che bussano alla nostra porta perché non hanno da mangiare o per altre necessità spirituali sono tante. E’ il fulcro della nostra vita questo, altrimenti non avrebbe senso chiudersi in un luogo per vivere e bastare a noi stesse".

Capita che si litighi tra monache? "Certo. Non ci è precluso niente, né dei sentimenti, né della loro esternazione. Si litiga, si ride, si fatica, si sta bene, non ci si sopporta. La differenza non sta nel vivere o meno queste cose m a nel come le attraversiamo e le risolviamo. Noi siamo diverse nella nostra comunità, presentiamo ciascuna delle spigolosità che derivano dal nostro temperamento, dalla nostra storia, dalla nostra sensibilità. Ma ciò che conta è vivere una risposta d’amore verso l’Assoluto che è il Signore, e che ha come prima esigenza accogliersi l’un l’altro. Ciascuna con le nostre zone d’ombra, i nodi anche non risolti. Guardare a Gesù, solo così, è possibile realizzare un’apertura. Obbedire è in fondo dare uno spazio interiore liberandolo dall’appropriazione della tua volontà. Noi non siamo sotto una campana di vetro che ci salva da tutta quella che è l’umanità e il mondo da cui proveniamo."

In che senso voi vi ritenete feconde? "La nostra è una fecondità spirituale, un sentire che la propria vita ha un frutto da cui le persone possono beneficiare per vivere. Ecco, io sento e credo che questo non lo si controlla, resta un mistero. E’ un atto di fede. Ci affidiamo a chi può darla la fecondità, il Signore, che può dare la vita, appunto. Quello che possiamo verificare è l’apertura a dare frutto. Quale sia questo frutto non ci è dato saperlo, forse ne possiamo vedere solo delle briciole. Ma meglio così, perché sarebbe anche pericoloso limitare a ciò che vedo e misuro il frutto di un’azione, sarebbe riduttivo e banale. Si entrerebbe in una sorta di efficientismo invece qui siamo in un’altra economia. Se per esempio dovessimo misurare la fecondità di Gesù crocifisso dichiareremmo, alla verifica dei dati sensibili, la sterilità assoluta. Invece sappiamo che lì c’è il vertice della fecondità".

Essere in rete, frequentare i social come facebook può incrementare le vocazioni? "Noi siamo chiamate a vivere i valori della nostra vita più che a preoccuparci se abbiamo o no vocazioni. Vivere il Vangelo è sufficiente ed eloquente per testimoniare. Fb può essere di aiuto, a seconda dei contesti dove la comunità vive e in base alle necessità specifiche. Per noi non c’è questa esigenza al momento, tanto più che non abbiamo il tempo per curare questo tipo di comunicazione. E poi, siamo convinti che si riesca a garantire una profondità di comunicazione se essa ci richiede di essere al contempo veloci e di spessore?".

Come si fa a guidare una comunità del genere e come si controlla questo potere? Insomma, come si fa - stando da questa parte della grata - a riconoscere che in un monastero si sta crescendo in maniera 'sana'? "Chiara ci ha invitato ad essere 'sorella tra sorelle'. La superiora è colei che si mette al servizio, lavando i piedi. E' ciò che ci chiede la Chiesa e il Vangelo. Se uno ha un po’ di fiuto e intesse un confronto con le sorelle forse può comprendere facilmente che stile, che clima c'è 'dentro', analogamente a come lo si può fare entrando in casa di una famiglia. Se si respire gioia, va bene. Che sia autentica però. Se c’è una onestà di comunicazione, se c'è una trasparenza, un non recitare ruoli".








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