2015-04-02 12:30:00

Kenya: attacco al Shabaab a Garissa, 15 morti in un campus


È salito ad oltre 70 vittime, alcune decapitate, il bilancio dell'attacco di oggi in un campus universitario di Garissa, nell'est del Kenya, da parte di uomini armati col volto coperto appartenenti agli estremisti somali di al Shabaab che, penetrati nella struttura, si sono asserragliati in un dormitorio, aprendo il fuoco per diverse ore. Quasi 80 i feriti, più di 500 studenti sono stati tratti in salvo. Quattro gli aggressori uccisi nel blitz delle forze di sicurezza intervenute per fermare l’attacco. Sui motivi di questo nuova violenza in Kenya, Giada Aquilino ha intervistato Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali:

R. – Per gli Shabaab il Kenya ormai è diventato un territorio strategico dell’offensiva di matrice jihadista nella regione del Corno d’Africa. Le ragioni dell’attacco al popoloso Paese africano sono sostanzialmente di ordine politico e militare. Quello militare attiene all’avanzata che Amisom - la missione internazionale dell’Unione Africana - sta portando avanti in Somalia e che quindi costringe al Shabaab a perdere alcuni luoghi strategici, alcuni snodi vitali sul territorio somalo e ad estendere la sua azione al di fuori dei confini della Somalia. Quello politico riguarda il fatto che al Shabaab ormai da alcuni anni non è più soltanto una realtà somala, ma una realtà maturamente jihadista internazionale e che quindi cerca di colpire territori in tutto il Corno d’Africa e di portare un’agenda internazionale del jihad.

D. – Gli attacchi degli Shabaab non sono purtroppo una novità in Kenya. Nel 2013 il sanguinoso attentato ad uno dei Centri commerciali di Nairobi, ora un campus a Garissa. A cosa puntano quindi gli estremisti islamici?

R. – Puntano alla destabilizzazione del Kenya, che è uno dei Paesi che più si è impegnato nella lotta e nel contrasto al terrorismo jihadista nel Corno d’Africa. Tuttavia è un Paese che vive equilibri etnico-religiosi molto fragili e una situazione economica precaria. L’agenda di al Shabaab è quella di cooptare le esigenze delle fasce più deboli e più esposte ed utilizzarle contro il governo keniota come strumento di pressione politica. Non dimentichiamo che le fasce settentrionali del Kenya ospitano nutrite rappresentanze somale: quindi c’è la possibilità di sfruttare un network tribale consolidato, nel tentativo di imitare o comunque di puntare alla ‘territorializzazione’ del movimento. L’idea del Califfato di creare delle realtà statali o parastatali jihadiste è diventata il nuovo obiettivo che accomuna movimenti anche geograficamente molto lontani. In questo momento al Shabaab non ha dichiarato affiliazione ufficiale allo Stato Islamico: fa parte del network di al Qaeda, però non è da escludere che per rilanciare la propria immagine e il proprio ‘appeal’ magari una delle fazioni di al Shabaab decida di cambiare rotta e di dichiararsi fedele allo Stato Islamico, per tentare di rinvigorire i propri ranghi ed i propri obiettivi politici e militari.

D. – Ha fatto cenno al quadro del Kenya. La situazione in Somalia oggi qual è?

R. – La Somalia è oggi un Paese che cerca faticosamente di ricostruire se stesso. Ci sono finalmente un governo e una presidenza della Repubblica che in un certo qual modo sono più o meno rappresentativi di alcune realtà tribali e della volontà del popolo. A Mogadiscio si cerca difficilmente di vivere con normalità, anche se gli attacchi appunto degli Shabaab sono quotidiani. Nel resto del Paese è in corso una guerra silenziosa, perché non ha in molti casi l’attenzione dei media rispetto ad altri teatri che vivono situazioni identiche. Ed è un Paese che ha bisogno del sostegno politico innanzitutto della comunità internazionale, per tornare a pieno titolo all’interno delle relazioni internazionali, dopo oltre 20 anni in cui è stato definito purtroppo uno Stato fallito, un buco nero geopolitico, nel quale sono proliferati terrorismo islamico, pirateria ed altri fenomeni di instabilità.








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