2015-04-28 14:18:00

Sudan: Bashir riconfermato presidente, è al quarto mandato


La riconferma per un quarto mandato presidenziale in Sudan di Omar al-Bashir ha aperto un dibattito internazionale attorno al protrarsi della sua permanenza al potere e all’effettiva situazione nel Paese africano. Sottoposto ad un embargo economico da parte degli Stati Uniti dal 1997, per presunte violazioni dei diritti umani e accuse di legami col terrorismo, il Sudan ha negli ultimi anni perso - con l’indipendenza del Sud nel 2011 - il 75% delle proprie risorse petrolifere, registra un’inflazione galoppante e un tasso di disoccupazione che supera il 30%. Come leggere dunque la rielezione di Bashir nelle consultazioni svoltesi tra il 13 ed il 16 aprile? L'opinione di Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali, intervistato da Giada Aquilino:

R. - Per individuare il significato della rielezione di Bashir bisogna necessariamente paragonarlo a un’altra elezione, cioè quella del presidente Buhari in Nigeria. Mentre in Nigeria abbiamo assistito a un Paese che per la prima volta ha voluto premiare il partito di opposizione, cosa che non era mai successa in Africa, dall’altra parte invece abbiamo in Sudan un regime, "paternalistico" e "personalistico", in cui la figura del presidente è la figura del padre padrone del Paese, quindi un’indicazione in controtendenza rispetto ai tanti lati positivi, ai tanti spunti positivi che il processo di democratizzazione sta avendo in Africa. E un messaggio anche per le organizzazioni internazionali e il mondo occidentale: cioè che il Sudan ha comunque bisogno di aiuto e di sostegno perché altrimenti è difficile immaginare uno svecchiamento pacifico della classe dirigente.

D. – Anche in Nigeria però Buhari non è una figura nuova, era già stato al potere…

R. – Sì, però Buhari poteva tranquillamente correre con il partito di potere e non l’ha fatto. Il fatto che a vincere sia stato un partito di opposizione vuol dire che la società e l’elettorato nigeriani hanno cominciato ad assorbire determinate dinamiche democratiche. Stiamo parlando di democrazie giovani e in fase di assestamento.

D. – Per quanto riguarda Bashir, il fatto che per il conflitto in Darfur debba rispondere di crimini di guerra e contro l’umanità di fronte alla Corte penale internazionale come viene letto in Sudan?

R. – La classe intellettuale e gli alti quadri dirigenti di opposizione del Paese individuano in questa accusa criminale nei confronti di Bashir un argomento per minare la base del suo potere. Però, in realtà, ciò che sta mettendo in difficoltà l’amministrazione di Bashir è che siamo di fronte a un Paese povero, un Paese dove – per l’indipendenza del Sud Sudan – è venuta a mancare la ricchezza petrolifera, quindi gli introiti della vendita di idrocarburi e, di conseguenza, la base economica per tutte quelle politiche di ridistribuzione e di sussidio necessarie a calmierare il malcontento.

D. – In Sudan, Bashir prese il potere con un golpe nell’89. In Burundi, Nkurunziza correrà per il terzo mandato e sono in corso manifestazioni di protesta, in Zimbabwe Mugabe è al potere dagli anni ’80, solo per citare alcuni casi. Perché c’è questo protrarsi di presidenze e di mandati?

R. – In Africa, dal momento della decolonizzazione, la costruzione di un meccanismo maturo dal punto di vista democratico è stato difficoltoso, perché ogni sistema politico è fortemente figlio del sistema sociale. E nei sistemi sociali di determinati Paesi c’è una struttura verticistica, una struttura nella quale i legami etnici, i legami tribali e la personalizzazione della sfera pubblica sono all’ordine del giorno. In molti Paesi africani, questi leader – appoggiati dalle loro élites e dai loro pretoriani – trasformano lo Stato in una loro proprietà. Certo è che la "primavera araba" nel 2011 ha scosso tutto il continente perché a partire dagli eventi nel nord Africa molte porzioni della società civile africana hanno cominciato a vedere che il cambiamento era possibile e quindi hanno cominciato ad accrescere le proteste e le condanne nei confronti di questi regimi antidemocratici e autocratici.

D. – Pensando al 2011, è anche vero che la caduta di un dittatore, di un uomo forte – come nel caso di Gheddafi in Libia – può significare poi l’apertura di scenari altrettanto cruenti…

R. – Assolutamente sì, perché il problema è anche legato al fortissimo controllo che queste élites esercitano sulla popolazione: un controllo di polizia, politico, un controllo che spesso usa la violenza in maniera indiscriminata. Nel momento in cui la pietra angolare di questo sistema di potere viene via, lo Stato – che si basa sulle persone e non su strutture asettiche – inevitabilmente crolla.

D. – Forse, su tutte queste realtà si innestano poi pure interessi di grandi potenze estere…

R.  – L’Africa purtroppo, lo dico con grande dispiacere, non ha smesso di essere il continente depredato dalle ex potenze coloniali, che oggi continuano a seguire sia tramite i governi, sia tramite le multinazionali un approccio di tipo neocoloniale.








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