2015-05-08 14:39:00

Anche un padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia


Dopo l'esordio di due anni fa, anche quest'anno la Santa Sede presenta un suo padiglione alla Biennale d'Arte contemporanea di Venezia, aperta dal 9 maggio al 22 novembre. Come nel 2013, anche per la 56.ma edizione dell'Esposizione internazionale d'arte il commissario della Santa Sede è il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, mentre curatrice del padiglione, inaugurato questo pomeriggio, è Micol Forti, direttrice della collezione d'arte contemporanea dei Musei Vaticani. Fabio Colagrande l'ha intervistata:

R. – Il tema di quest’anno "In Principio…la Parola si fece carne" prende spunto dal Prologo del Vangelo di Giovanni ed è stato affidato a tre artisti: tre artisti più giovani, rispetto alla prima edizione del 2013. Un artista che viene dall’Africa, dal Mozambico, Mario Macilau, un fotografo di soli 30 anni; un’artista macedone, Elpida Hazdi Vasileva, 40 anni, che vive e lavora a Londra; e poi una più matura cinquantenne dalla Colombia, Monika Bravo. Questi tre artisti di culture differenti, di provenienze differenti e di storie personali e professionali molto diverse, si sono confrontati con il tema offerto.

D. – Ecco, qual è il senso di questa nuova partecipazione della Santa Sede alla Biennale d’Arte? Il cardinale Ravasi parlava della volontà di ristabilire il dialogo tra arte e fede …

R. – E’ una strada lunga che, come il cardinale ha annunciato e sintetizzato in tante iniziative del dicastero della cultura, deve potersi riannodare attraverso tante esperienze diverse. La Biennale è un contesto specifico di arte contemporanea, di sperimentazione e di apertura, anche, alle nuove generazioni: è questo soprattutto lo sforzo che abbiamo voluto fare quest’anno. Non si tratta dunque, naturalmente, di arte liturgica o di committenze sacre in senso stretto e specifico, ma di questa apertura, di questo sguardo sempre così attento che la Chiesa ha avuto nei confronti dei linguaggi, delle espressioni, delle possibilità e della libertà di espressione delle persone e delle culture. Una delle tappe fondamentali per riannodare questa distanza che è andata maturando negli ultimi decenni ma che, direi, noi stiamo cercando di ricostituire attraverso tante esperienze diverse, non solo la Biennale …

D. – Tre artisti, due donne e un uomo; Colombia, Macedonia e Mozambico; appena sotto i 50 anni … insomma, ci sono dei criteri precisi, in questa vostra scelta …

R. – Esattamente. Questa è stata una volontà del cardinale Ravasi, di andare a indagare in mondi più distanti da noi, in contesti culturali e artistici, anche, non conosciuti in Italia o in Europa, e stabilire un dialogo. Queste opere sono state costruite insieme: io le sto vedendo qui nel nostro padiglione, le ho viste nascere in queste ultime settimane. E’ stato dunque un dialogo fatto sul tema, fatto sulla lettura dei testi, fatto sui pensieri che gli artisti hanno maturato nel corso del lavoro per dare vita a queste opere. Ed è proprio questo tragitto che può sembrare capillare ma che, di fatto, dalla capillarità può costruire una base più ampia da cui dobbiamo ripartire e che dobbiamo sostenere con il nostro coraggio e con il nostro entusiasmo.

D. – In che contesto si collocano queste tre opere del padiglione della Santa Sede? Chi sono i vostri "vicini di casa"?

R. – Come due anni fa, da una parte abbiamo l’Argentina – era stato un caso, non voluto e non predisposto, che proprio la nazione di provenienza del Santo Padre occupasse il padiglione a noi adiacente – e dall’altra parte abbiamo il Messico e gli Emirati Arabi. Sopra di noi – per la prima volta – la Turchia, che quest’anno presenta un artista di origine armena: e quindi anche il dialogo, sulla base delle più recenti osservazioni del Santo Padre, trova qui un punto d’incontro e una vera vicinanza. L’artista turco si è affacciato al nostro padiglione, abbiamo lungamente parlato e discusso e ci ha tenuto a segnalarci che nella sua grande installazione, su una scultura particolare, c’è proprio una frase del Vangelo di Giovanni.








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