2015-05-17 09:30:00

Alla deriva e senza soccorso: la tragedia del popolo Rohingya


Una catastrofe umanitaria si consuma nel silenzio internazionale: quella del popolo Rohingya. A migliaia sono alla deriva nel mare delle Andamane, a bordo di navi di fortuna, dopo la fuga dalla Birmania, dopo essere stati abbandonati dai trafficanti e dopo essere stati respinti da Malaysia, Thailandia e Indonesia. Il premier malese si è rivolto al governo birmano, invitandolo a farsi carico di una questione che lo riguarda direttamente. E’ in Birmania che vivono 1,3 milioni di Rohingya, gruppo etnico poverissimo di fede musulmana, non riconosciuto come minoranza, sistematicamente discriminato, al quale non è mai stata concessa la cittadinanza. E’ da lì che queste persone fuggono, sono circa seimila abbandonati in mare in cerca di un approdo. Francesca Sabatinelli ha intervistato Francesco Montessoro, docente di Storia dell’Asia all’Università di Milano:

R. - Nessuno vuole i membri di una comunità emarginata e poco influente semplicemente perché, in tutti i Paesi dell’area, è inaccettabile l’afflusso di decine di migliaia, di centinaia di migliaia di persone completamente sradicate, che, di fatto, non hanno né in Birmania-Myanmar, una speranza di insediamento in termini continuativi, né possono tornare in Paesi da cui, in altre epoche, sono emigrati. Tutti i Paesi dell’area hanno politiche sull’emigrazione decisamente restrittive e hanno situazioni interne decisamente difficili, sotto il profilo socio-economico. Dovrebbero tornare in Bangladesh, ma si tratta di un afflusso migratorio che è avvenuto molto tempo fa e dunque, da questo punto di vista, non tornano in un Paese lasciato dai loro antenati. E d’altra parte sono un problema per la stabilità di alcune regioni del Myanmar.

D. – Sembra davvero impossibile immaginare che un nuovo corso birmano possa finalmente riconoscere come minoranza quella dei Rohingya…

R. – La situazione delle minoranze etniche in Myanmar è una situazione del tutto particolare. Bisogna considerare che i birmani veri e propri sono i due terzi della popolazione del Paese. Vi è un terzo, più del 30 per cento della popolazione, che non appartiene all’etnia Bamar, quella principale, quella birmana vera e proprio. Questo terzo della popolazione appartiene a 135 gruppi etnici diversi, con caratteristiche culturali, linguistiche, molto diverse le une dalle altre. Per cui non c’è la possibilità di costituire uno Stato. Alcuni gruppi, più numerosi, i Kachin, Shan, Karen, hanno l’ambizione di avere un proprio Stato, e dal 1948, in vari modi, animano anche forme di resistenza armata. Per cui il Myanmar, la Birmania di ieri, non è affatto un Paese unitario, al governo centrale sfugge una parte consistente della popolazione e del territorio. Questa situazione fa da sfondo a qualsiasi processo di trasformazione. La possibilità di pacificare il Paese, trovando un accordo con le minoranze etniche, è assai problematica. Se, per ipotesi, vi fosse fra qualche mese, dopo le elezioni che si terranno alla fine dell’anno, un governo capeggiato da Aung San Suu Kyi, non ci sarebbe comunque, di per sé, la speranza di giungere in tempi brevi ad una soluzione di un problema che è di tipo etnico e che ha una valenza nazionale. Il caso dei Rohingya è ancora più particolare: si tratta di una minoranza che non ha legami ancestrali con la terra, che non è riconosciuta come membro di una comunità, pur multi-etnica, e dunque non ha alcun diritto. Per di più, sono legati a una componente religiosa specifica, quella musulmana, che non ha, nell’universo buddista-birmano, alcun legame, alcuna simpatia.

D. – Human Rights Watch ha accusato la Malaysia, la Tailandia e l’Indonesia di giocare un ping-pong umano. Mi sembra a questo punto che la fine di questa partita sia già segnata, tragicamente segnata…

R. – I governi dei Paesi che lei ha citato sono ostili ad accogliere profughi che costituirebbero un problema e che costituirebbero anche un precedente, per la verità abbastanza grave. Si tratta di problemi difficilmente risolvibili. In Asia sud-orientale non vi è alcun governo che sia disposto a concedere alcunché, per ragioni interne, perché questi Paesi sono meno dotati di infrastrutture, o comunque di una ricchezza economica per accogliere qualcuno che è semplicemente una zavorra, un peso. Per cui, adotteranno senz’altro politiche sgradevoli e disumane. E la denuncia che fanno gli organismi umanitari internazionali è una denuncia sacrosanta.








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