2015-06-29 13:13:00

Tunisia: attentatore frequentava moschee estremiste


In Tunisia, dopo la strage di venerdì a Sousse firmata dall’Is, il governo cerca di correre ai ripari: 80 le moschee chiuse, mille uomini in più schierati a difesa dell’incolumità della popolazione. Sullo sfondo il massiccio esodo dei turisti dal Paese e le indagini che proseguono serrate: uno degli attentatori era un frequentatore di una delle moschee fuori il controllo dello Stato; elemento questi che metterebbe in luce la poca preparazione del Paese a fronteggiare il fenomeno terroristico. Un’analisi del contesto tunisino Paola Simonetti l’ha chiesta a Stefano Torelli, ricercatore dell’Istituto per gli Studi della Politica Internazionale ed esperto di Medio Oriente e Paesi arabi:

R. – La Tunisia ha avuto, e ha evidentemente, un problema strutturale legato al fatto che le forze di sicurezza tunisine storicamente non sono state abituate a fronteggiare una minaccia costante terroristica jihadista di questo tipo. La Tunisia è un Paese che pian piano sta provando ad adattarsi a questo tipo di minaccia. Sicuramente, quindi, vi sono stati anche elementi di sottovalutazione di alcune minacce.

D. – Il ministro dell’Interno ha sottolineato l’importanza dell’attività di "intelligence", ma ha anche spiegato che il Paese non ha bisogno di spie, ma di persone con un reale spirito patriottico per difendere il popolo dal terrorismo. Sembra voler puntare un po’ il dito su un nodo debole…

R. – Diciamo che le affermazioni del ministro dell’Interno chiaramente vogliono ribadire che in questo momento è importante per la Tunisia continuare sulla strada di un processo politico di democratizzazione molto difficile, che comunque però sta andando avanti, e non cadere in derive autoritarie che è uno dei rischi più grandi che un Paese come la Tunisia in questo momento sta correndo: quello proprio di cadere nel meccanismo di politiche repressive e autoritarie, magari appunto fortificate dalla presenza di terroristi e jihadisti all’interno. E, forse, questo è anche uno degli obiettivi che gli stessi terroristi si pongono, cioè quello di riportare la Tunisia a uno Stato autoritario, come era prima delle rivolte del 2011, e in questo modo far sì che cresca nuovamente il malcontento sociale. E sappiamo quanto questo sia, per queste formazioni, un elemento fondamentale per il reclutamento di nuovi jihadisti.

D. – Un anno fa nasceva il cosiddetto Califfato, ovvero un territorio compreso tra Siria ed Iraq, che poi è caduto nelle mani dei fondamentalisti islamici. I suoi militanti ci appaiono come letali, ramificati. E’ davvero così sul campo? Il sedicente Stato islamico è davvero così potente, come ci viene raffigurato, come ama raffigurarsi?

R. – Innanzitutto, il Califfato, Stato islamico, o come vogliamo chiamarlo, è influente, è forte finché non trova una forza reale ed efficace che si contrappone a esso. Questo è un elemento fondamentale, perché nonostante i tentativi e i proclami da parte della comunità internazionale di voler combattere e sconfiggere lo Stato islamico, in realtà non sono ancora state messe sul campo iniziative efficaci per combatterlo in un’ottica di lungo termine. Questo perché, comunque, vi sono anche visioni differenti all’interno dei vari attori regionali sui futuri assetti del Medio Oriente, un giorno che, ipoteticamente, lo Stato islamico venisse debellato. E questo è un elemento di forza dello Stato islamico, che continua a esistere proprio in virtù del fatto che evidentemente una risposta efficace da fuori ancora non è arrivata. Sul campo sappiamo che anche lo Stato islamico, come molti attori durante una guerra – perché poi in realtà è una guerra quella che si sta combattendo – ha alti e bassi. Ha avuto, quindi, momenti di grande espansione e ha avuto sicuramente momenti anche di ritirata. Sembra, però, essersi abbastanza stabilizzato nel territorio che attualmente controlla. Dopo un anno, dunque, possiamo dire che in realtà, purtroppo, lo Stato islamico ancora non può dirsi indebolito e in più stiamo assistendo, proprio nelle ultime settimane e mesi, anche ad una nuova  strategia, che è più globale, che guarda più fuori. Attentati come quelli dell’altro giorno – in Tunisia, in Kuwait, in Arabia Saudita – danno l’idea di come questo movimento stia cercando di espandersi non solo dal punto di vista ideologico, quindi del messaggio, ma anche dal punto di vista operativo.








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