2015-07-07 19:39:00

Un milione e mezzo alla Messa di Quito, l'omelia del Papa


Dal grido rivoluzionario che accompagnò la conquista dell’indipendenza di un popolo spremuto e saccheggiato, al grido della fede in Cristo che rigenera i cuori delle persone e rapporti di una nazione intera. Papa Francesco ha fatto sua la storia dell’autonomia ecuadoriana esortando la folla di circa un milione e mezzo di persone radunatasi al Parque del Bicentenario di Quito a lavorare per il dialogo e l’unità della Chiesa e della nazione.

Di seguito ampi stralci dell’omelia del Papa:

“La parola di Dio ci invita a vivere l’unità perché il mondo creda. Immagino quel sussurro di Gesù nell’ultima cena come un grido, in questa Messa che celebriamo nella Piazza del Bicentenario (…) Il Bicentenario di quel grido di indipendenza dell’America Ispanofona. Quello è stato un grido nato dalla coscienza della mancanza di libertà, di essere spremuti e saccheggiati, ‘soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno’. Vorrei che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, che nasca ‘dalla gioia del Vangelo’, che – ha detto Francesco citando l’Evangelii gaudium – ‘riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento’.

“Padre, che siano una cosa sola perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21): così Gesù manifestò il suo desiderio guardando il cielo. Nel cuore di Gesù sorge questa domanda in un contesto di invio: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati  nel mondo» (Gv 17,18). In quel momento, il Signore sta sperimentando nella propria carne il peggio di questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento, però non nasconde la testa, non si lamenta. Anche noi constatiamo quotidianamente che viviamo in un mondo lacerato dalle guerre e dalla violenza. Sarebbe superficiale ritenere che la divisione e l’odio riguardano soltanto le tensioni tra i Paesi o i gruppi sociali. In realtà – constata il Papa – sono manifestazioni di quel “diffuso individualismo” che ci separa e ci pone l’uno contro l’altro, sono manifestazioni della ferita del peccato nel cuore delle persone, le cui conseguenze si riversano anche sulla società e su tutto il creato. Gesù ci invia proprio a questo mondo che ci sfida, con i suoi egoismi, e la nostra risposta non è fare finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità”.

“A quel grido di libertà che proruppe poco più di 200 anni fa non mancò – afferma Francesco – né convinzione né forza, ma la storia ci dice che fu decisivo solo quando lasciò da parte i personalismi, l’aspirazione ad un’unica autorità, la mancanza di comprensione per altri processi di liberazione con caratteristiche diverse, ma non per questo antagoniste. E l’evangelizzazione – indica – può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie. Certamente lo può essere e questo noi crediamo e gridiamo”. L’anelito all’unità “suppone la dolce e confortante gioia di evangelizzare, la convinzione di avere un bene immenso da comunicare, e che, comunicandolo, si radica; e qualsiasi persona che abbia vissuto questa esperienza acquisisce una sensibilità più elevata nei confronti delle necessità altrui”.

Da qui, prosegue il Papa a gran voce, “la necessità di agire per l’inclusione a tutti i livelli – lottare per l’inclusione a tutti i livelli! – evitando egoismi, promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione (...) E’ impensabile che risplenda l’unità se la mondanità spirituale ci fa stare in guerra tra di noi, alla sterile ricerca di potere, prestigio, piacere o sicurezza economica”.

L’evangelizzazione, dice ancora Papa Francesco, “non consiste nel fare proselitismo:  il proselitismo è una caricatura dell’evangelizzazione. Ma evangelizzare è attrarre con la nostra testimonianza i lontani, è avvicinarsi umilmente a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, avvicinarsi a quelli che si sentono giudicati e condannati a priori da coloro che si sentono perfetti e puri! Avvicinarsi a quelli che hanno paura o agli indifferenti per dire loro: ‘Il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore’”.

Inoltre, spiega, “porre la Chiesa in stato di missione ci chiede di ricreare la comunione, dunque non si tratta solo di un’azione verso l’esterno; noi siamo missionari anche verso l’interno e verso l’esterno manifestandoci ‘come una madre che esce verso l’incontro, come si manifesta una casa accogliente, una scuola permanente di comunione missionaria’» (Documento di Aparecida, 370).

“L’intimità di Dio, per noi incomprensibile – afferma ancora Francesco – ci si rivela con immagini che ci parlano di comunione, comunicazione, donazione, amore. Per questo l’unione che chiede Gesù non è uniformità ma la «multiforme armonia che attrae» (ibid., 117). L’immensa ricchezza del diverso, del il molteplice che raggiunge l’unità ogni volta che facciamo memoria di quel Giovedì santo, ci allontana dalla tentazione di proposte (…) più simili a dittature, a ideologie, a settarismi (…) Non si tratta neppure di un aggiustamento fatto a nostra misura, nel quale siamo noi a porre le condizioni, scegliamo le parti in causa ed escludiamo gli altri. Questa religiosità di élite…”.

Gesù, conclude, prega perché formiamo parte di una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo fratelli. Nessuno è escluso! Questo non trova il suo fondamento nell’avere gli medesimi gusti, le stesse preoccupazioni, gli talenti. Siamo fratelli perché, per amore, Dio ci ha creato e ci ha destinati, per pura sua iniziativa, ad essere suoi figli. Siamo fratelli perché ‘Dio ha infuso nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio, che grida: Abbà!, Padre!’ (Gal 4,6). Siamo fratelli perché, giustificati dal sangue di Cristo Gesù, siamo passati dalla morte alla vita diventando «coeredi» della promessa. Questa è la salvezza che Dio compie e che la Chiesa annuncia con gioia: fare parte del «noi», che arriva fino ad un ‘noi’ divino”.








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