2015-07-13 07:58:00

Libia: firmata intesa tra governo di Tobruk e fazioni locali


Un primo tassello per la soluzione della crisi libica è stato posto ieri a Skhirat, in Marocco, dove il governo riconosciuto di Tobruk e altre fazioni locali, tra cui le milizie di Misurata, hanno firmato una nuova versione di un accordo di pace avanzata dal mediatore dell'Onu, Bernardino León. Manca però la firma del governo islamista di Tripoli, che controlla una parte importante del Paese. Il servizio di Marco Guerra:

L'intesa prevede la fine dei combattimenti e la formazione di un governo di unità nazionale che sia guidato da un premier e da due vice, con poteri esecutivi concreti, per almeno un anno. L’accordo indica anche che l'unico Parlamento riconosciuto sia quello di Tobruk, condizione al momento inaccettabile per il Congresso nazionale Generale (Gnc), ovvero il Parlamento filo-islamista di Tripoli, che ha disertato l’incontro in Marocco ma che, attraverso un suo rappresentate, afferma di lasciare la porta aperta al dialogo per presentare modifiche alla bozza. I negoziatori contano di rivedersi dopo la fine del Ramadan, domani, per formare un esecutivo di transizione della durata di un anno e raggiungere un accordo di divisione dei poteri con o senza Tripoli. L'accordo è un "primo e importante passo verso la pace", ha commentato l’inviato dell’Onu León, mentre rappresentanti del governo di Tobruk l'hanno definito "un buon punto di partenza". Ma al di là delle divisioni fra il governo riconosciuto internazionalmente e l’esecutivo più vicino alle milizie islamiche, in Libia resta la grave minaccia dei gruppi jihadisti che si rifanno al sedicente Stato Islamico. A Bengasi negli ultimi quattro giorni si sono registrati almeno 20 morti e 80 feriti in violenti combattimenti tra soldati libici ed estremisti islamici. A Sirte miliziani dell’Is hanno distrutto decine di case. 

Sulle reali prospettive di questo accordo sentiamo l’analisi di Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi ed esperto di Libia:

R. – Andrebbe tutto inquadrato nella situazione altamente caotica della Libia, una situazione pressoché anarchica. E quindi non avere raggiunto un accordo - guardiamo l’altra parte del bicchiere, quella mezza vuota - non averlo raggiunto con tutte le fazioni di Tripoli o con quelle maggiori, con il governo, rimane un grosso handicap. Io spero che nei prossimi giorni si possa arrivare a ciò, ma siamo anche consapevoli che ormai Bernardino León sta lavorando per da mesi e ogni settimana ci sono annunci di accordi raggiunti che vengono poi in realtà non raggiunti. Quindi bisogna anche guardare con molto realismo. E poi bisogna pensare che se l’accordo viene raggiunto realmente, la comunità internazionale poi lo dovrà in qualche maniera supportare. Non possiamo pensare che venga raggiunto un accordo tra le parti e alcune falangi militari, che non lo accettano, possano compromettere la situazione da un momento all’altro: vuol dire che quando un governo si insedia, un parlamento si reinsedia, questi possono intervenire e interrompere il lavori o minacciare l’incolumità. Come possiamo fare perché ciò non avvenga? Qua si rilancia la palla a qualche tipo di supporto anche militare, naturalmente.

D.  – Quali sono gli scogli che permangono per il raggiungimento di un accordo con tutte le fazioni, in particolare con il governo filo-islamista di Tripoli che non ha firmato l’accordo?

R. – Ci sono certamente delle fazioni che in ogni caso non prenderanno parte all’accordo: questo è il grosso problema della situazione della Libia e in particolare di Tripoli. Se alcune fazioni armate non sono in ogni caso d’accordo, questo rimarrà sempre un problema. Bisogna limitare questo numero in maniera quasi irrilevante sul piano diplomatico per poi chiudere un accordo generale più complessivo. La cosa importante è avere, ad esempio, spaccato un po’ l’alleanza tra Tripoli e Misurata, aver portato buona parte delle milizie di Misurata o degli esponenti politici di una città importante come Misurata dalla nostra parte - intendendo come nostra parte quella del dialogo e del compromesso politico - è un’ottima cosa, ma io penso che ci sia ancora strada da fare, purtroppo.

D.  – E poi in tutto questo sul territorio libico emerge una guerriglia che si rifà allo Stato islamico…

R. – Io penso che alcuni Paesi - soprattutto alcuni Paesi rivieraschi come il nostro - abbiano naturalmente colto questo rischio del califfato, mentre altri Paesi non ancora. E’ vero che la Libia non è come la Siria e l’Iraq, non ci sono quel fazionalismo e quel settarismo che hanno permesso una crescita rapida e un’espansione veloce, anche militare, dell’Is. Vediamo invece che l’Is in Libia sta trovando diversi contenimenti naturali; il mondo jihadista in Libia è diviso, innanzitutto, come lo è diviso anche in Siria e in Iraq, ma non c’è una preponderanza, una simpatia verso l’Is, che viene percepito come qualcosa di esogeno, di esterno. Vediamo le difficoltà che ha, nelle ultime ore, nel controllo della città di Derna, che probabilmente è stata presa da parte di altre milizie che sono comunque islamiche radicali: non è che stiamo parlando di buoni contro cattivi. Quindi la situazione è composta, è molto difficile anche nel panorama jihadista libico. Questo fa sì che ci sia la possibilità di un’espansione dell’Is, ma il problema sostanziale rimane politico e rimane un problema naturalmente anarchico-militare, nel quale  varie fazioni islamico-radicale possono dividersi o allearsi a seconda delle convenienze.

D.  – La comunità internazionale finora ha sempre ribadito che non vuole un intervento armato in Libia. In qualche modo però, come hai già evidenziato, se si riesce ad arrivare alla Costituzione di un governo di unità, bisognerà aiutare questo Paese…

R. – Gli attori regionali sono importanti, devono avere un ruolo di calmiere; calmare le fazioni che rispondono a sé, o in qualche maniera che vedono negli attori regionali dei referenti politici, e ce ne sono, sia da una parte che dall’altra: Qatar, Turchia, verso Tripoli; dall’altra parte abbiamo invece l’Egitto, Emirati e Arabia Saudita: quindi è una situazione composita e bisogna lavorare naturalmente con pressione a livello internazionale, ma questo Europa e Stati Uniti lo stanno già facendo. Relativamente alla possibilità di un intervento, questo può avvenire solamente se c’è un accordo che comprenda gran parte degli attori politici, perché come si farebbe a non supportarlo poi anche militarmente. Cioè, naturalmente, se chiudiamo un accordo e formiamo un nuovo governo, bisogna metterlo poi nelle condizioni di governare, e la prima cosa da fare è proteggerlo da chi è armato e vuole scansarlo… quindi è naturale che in qualche maniera questo debba essere protetto, anche - io penso - con un intervento, molto modesto numericamente, di peacekeeping o di “peace-enforcement”. Ma io penso che ancora adesso non vi siano le condizioni. Gli Stati Uniti sono piuttosto lontani da questo, però sono anche pronti a supportare iniziative di attori europei, ad esempio. Io penso che l’Italia in questo possa essere in prima fila, ma questo non può essere naturalmente fatto solo dall’Italia, ma dall’Europa e dagli altri alleati europei – penso soprattutto a Gran Bretagna e Francia.








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