2015-07-29 14:56:00

Italcementi, vola in borsa dopo la fusione con la Heidelberg


Vola la Italcementi del gruppo Pesenti, a poche ore dall’annuncio della vendita del 45% alla tedesca Heidelberg Cement, con un balzo in borsa del 52%.  Alla preoccupazione dei sindacati per i posti di lavoro, e di alcune forze politiche che parlano di perdita dell’eccellenza italiana, risponde chi sottolinea l’importanza della nascita di un tale colosso del cemento, e del richiamare capitali esteri in Italia. “Garantiamo lo sviluppo del gruppo”: è stato il commento del presidente di Italcementi, Giampiero Pesenti. Francesca Sabatinelli ha intervistato Fabiano Schivardi, docente di economia alla Bocconi di Milano:

R. – È un’operazione che io credo abbia molto senso. L’industria del cemento si sta consolidando, il 15 luglio c’è stata un’altra mega fusione tra due produttori già molto grandi, e quindi la tendenza è quella. Italcementi è un produttore medio-grande, ma certo è lontano dai primi della classe, e in una prospettiva di medio periodo credo che questa dimensione, così media, in un mercato che sta sempre più evolvendosi verso una situazione in cui ci sono global players, cioè ci sono pochi produttori presenti in tutto il mondo, avrebbe rappresentato una situazione problematica per Italcementi, di rimanere da sola.

D. – Aprire in questo modo il mercato italiano presenta dei rischi?

R. – In questo caso non credo che ci siano rischi particolari. Prima di tutto il nostro mercato è aperto, nel senso che abbiamo sottoscritto un progetto europeo per cui la circolazione delle merci e delle persone è completamente libera. Quindi parlare di chiusura di mercati nel 2015 secondo me è abbastanza anacronistico. La paura che si ha sempre quando succedono operazioni di questo tipo è che magari un controllante estero abbia interesse a chiudere impianti italiani e a trasferire produzioni all’estero. In questo caso la paura è abbastanza ingiustificata, perché la produzione del cemento è locale: cioè il cemento è molto pesante da trasportare, e quindi c’è questa “regola del pollice”, che dice che un impianto di produzione di cemento può essere al massimo a 100 km da dove poi il cemento verrà utilizzato, cioè dove si costruisce. Quindi, in questo caso, il rischio che gli impianti italiani vengano chiusi per essere sostituiti da impianti tedeschi, turchi o egiziani, è molto molto limitato, perché appunto il cemento va prodotto in loco.

D. – Non pochi giornali in Italia titolano: “un altro pezzo di Italia che va all’estero”. Si parla di un qualcosa in uscita, ma non di un qualcosa in entrata, perché?

R. – Secondo me è una manifestazione dei problemi strutturali del nostro capitalismo familiare. In Italia il capitalismo nel secondo dopoguerra è stato retto da famiglie che possedevano e gestivano le aziende, è il caso appunto di Italcementi, che ha il controllo dell’impresa ed è attivamente coinvolta poi nel management, nel senso che il presidente e l’amministratore delegato sono entrambi parte della famiglia Pesenti. Questa forma di capitalismo sta mostrando la corda, perché difficilmente le famiglie riescono poi a portare queste imprese, anche nei casi migliori come in quello di Italcementi, a diventare dei veri global player. E quindi i global player tipicamente hanno un azionariato diffuso; hanno, magari nella compagine azionaria, una serie di fondi; vengono poi gestite tipicamente da manager che non possiedono l’impresa, ma che sono manager esterni esperti del settore, che si sono dimostrati particolarmente capaci ecc; reperiscono capitali sui mercati internazionali e raggiungono dimensioni necessarie per giocare in questo mercato sempre più internazionale. Il nostro capitalismo familiare fa molta fatica, a parte forse un paio di casi, Luxottica o Fiat, a raggiungere queste dimensioni, e quindi è per forza di cose destinato ad essere preda. Quindi, quello su cui ci si deve interrogare è proprio sulla struttura di controllo delle nostre imprese, cioè dobbiamo pensare ad aumentare la presenza di azionariato nelle nostre imprese che non sia più solo riconducibile principalmente alle grandi famiglie imprenditoriali italiane, ma sia riconducibile a un azionariato più diffuso in Borsa e anche a Fondi di investimento di vario tipo che in Italia ancora non esistono e che invece in altri Paesi costituiscono l’ossatura della compagine azionaria di queste imprese multinazionali  che riescono a competere e poi vengono in Italia e comprano le nostre imprese. Il rischio più grosso per queste imprese, secondo me, non è tanto essere acquisite dall’estero, ma essere nelle mani di un imprenditore che, da una parte, non ha la forza per diventare un global player ma, dall’altra, non ha neanche la lucidità di capire quando è il caso di aprire la compagine azionaria a investitori esterni. Sicuramente il rischio che queste imprese, per un atteggiamento molto protettivo degli imprenditori e della famiglia proprietaria, rimangano bloccate dalla famiglia, dal controllo, e rifiutino di giocare sul mercato internazionale, le porta inevitabilmente a passare guai seri e a percorrere una strada che non credo porti da nessuna parte.








All the contents on this site are copyrighted ©.