2015-08-01 12:43:00

Due morti in Palestina dopo la morte del bambino a Nablus


Ancora tensione e scontri in Cisgiordania il giorno dopo la morte del piccolo Ali Dawabsha, di 18 mesi, bruciato vivo in un attacco dei coloni ebrei vicino Nablus. A Ramallah migliaia di palestinesi hanno partecipato ai funerali di un ragazzo di 17anni ferito ieri da soldati israeliani durante scontri. Si tratta del secondo morto tra i palestinesi, il primo nella Striscia di Gaza, dopo l'attacco degli estremisti israeliani. Restano intanto molto gravi le condizioni dei genitori e del fratello maggiore di Ali che, per le ustioni riportate, sono ancora in pericolo di morte. Unanime il cordoglio della politica, con il primo ministro israeliano Netanyahu che in una inusuale telefonata al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha condannato l’attacco di Nablus, definendolo un atto terroristico. Ma questo gesto può riaprire una speranza di dialogo? Michele Raviart lo ha chiesto al giornalista Alberto Negri, esperto dell’area per Il Sole 24 ore:

R. - La speranza di poter vedere e ripartire il dialogo tra israeliani e palestinesi non muore mai; un dialogo che sembrava affondato praticamente nel nulla, inghiottito nel buco nero di quello che sta accadendo in Medio Oriente. Sottolineiamo il fatto che nel frattempo è stato firmato a Vienna un accordo per il nucleare con l’Iran, ma non si è mai addivenuti in precedenza a nessun risultato negoziale importante in Medio Oriente negli ultimi decenni, praticamente dai tempi di Camp David. Certo il cordoglio per questa vittima innocente, simbolo proprio di quanto è disastroso questo conflitto, però non deve nascondere ciò che è accaduto in passato.

D. - Quale è  stata la reazione della comunità internazionale alla tragedia di Nablus? Ci sono state condanne e anche critiche verso Israele per la sua politica sui coloni… Quale è stato il tenore generale delle reazioni?

R. - Mi è sembrata interessante la presa di posizione dell’Unione Europea e dell’Alto rappresentante della politica estera di Bruxelles, Federica Mogherini, che ha condannato subito l’espansione degli insediamenti. Non mi è sembrato affatto questa volta una presa di posizione rituale, ma direi abbastanza convinta da parte di un rappresentante europeo che comunque oltre ad avere partecipato recentemente al negoziato con l’Iran, ha effettuato diversi tour nella regione cercando un po’ di chiarire quale sia la posizione europea. Sono - come dire - i segnali che qualcosa è cambiato nella regione, nessuno può avere come dire delle posizioni di credito già prestabilite. Qui ognuno si dovrà guadagnare nuovamente la propria credibilità.

D. - Qual è il ruolo degli Stati uniti? È ancora quello di una volta? Può essere ancora quello di promotore?

R. - Il ruolo degli Stati Uniti è strettamente legato al tipo di politica che fa Washington nella regione. Oggi è una sorta di riedizione del double containment degli anni '80, quando da una parte si sosteneva l’attacco dell’Iraq di Saddam Hussein nell’Iran, ma dall’altra parte si cercava di non far perdere disastrosamente all’Iran stesso questo conflitto. Oggi il doppio contenimento avviene nell’ambito del contrasto forte ormai molto evidente tra sciiti e sunniti all’interno dello stesso mondo sunnita. Poi c’è Israele, che in qualche modo è da sempre un alleato fondamentale degli Stati Uniti, ma che in qualche modo forse non diventa più prioritario come era prima, perché la stessa regione del Medio Oriente, agli occhi degli Stati Uniti, non è più prioritaria come poteva essere venti o trenta anni fa.

D. - È per questo che Kerry nel suo prossimo viaggio in Medio Oriente toccherà Egitto e Qatar e non Israele?

R. - Penso che questa sia una scelta dovuta al fatto che ci troviamo di fronte a situazioni come l’apertura del nuovo Canale di Suez in Egitto e quindi un’occasione importante; poi c’è la quesitone saudita che resta fondamentale, perché in questo momento si stanno vedendo, intuendo dei cambiamenti anche da parte di Riad e della nuova leadership di re Salman. Finora abbiamo visto ad esempio un fortissimo contrasto fra Riad e i Fratelli Musulmani appunto appoggiare il generale al Sisi contro il governo di Morsi in Egitto. Oggi c’è un cambiamento: perché? perché in qualche modo la lotta al Califfato, lo stesso accordo di Vienna stanno spingendo Riad a ricostituire un fronte sunnita che è chiamato oggi in qualche modo a replicare, a rispondere all’evoluzione e alle sfide geopolitiche della regione.








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