2015-08-02 07:58:00

Eritrea, migranti in fuga. La scrittrice Sibathu: dramma di un popolo


Sono 150 mila i migranti arrivati via mare in Europa nel 2015, secondo l'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), mentre almeno 1.900 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo. Moltissimi sono i cittadini eritrei, in fuga da una dura repressione: in questi giorni la situazione nel Paese è al vaglio di una Commissione d’inchiesta istituita dalle Nazioni Unite per investigare su crimini contro l'umanità. Chi abbandona il Paese rischia la vita nel Sahara e nel Mediterraneo, arrivando stremato, nella migliore delle ipotesi, sulle coste europee. Una situazione drammatica, che deve assolutamente cambiare. Lo racconta, al microfono di Giacomo Zandonini, la scrittrice eritrea residente in Italia Ribka Sibathu:

R. – Paradossalmente gli eritrei hanno lottato dall’inizio della colonizzazione italiana, dal 1894, per la libertà. E ancora, dopo trent'anni di lotta armata all’ultima colonizzazione etiopica, adesso abbiamo la peggiore dittatura del mondo. Non c’è libertà di espressione, di unione, non c’è un’università - l'unico Paese al mondo - non c’è Costituzione, non c’è legge. Una persona è schiava nella sua terra: lavora quasi gratis - perché con 10 euro al mese non so se possiamo comprare due polli in Eritrea - e a tempo indeterminato. C’è poi l’abuso sulle donne.

D. – Decine di migliaia di eritrei sono arrivati in Europa dopo viaggi difficilissimi. Che cosa esattamente devono affrontare e a chi devono affidarsi queste persone?

R. – Nel Paese, riuscire ad arrivare alla frontiera, senza essere catturati dai militari, è già una grande fortuna. Un ragazzo, addirittura, è stato torturato e gli hanno quasi tagliato una gamba, per paura che varcasse la frontiera, perché cercava lavoro passando da un villaggio all’altro. Dopo essere riuscito a scappare, per le torture subite dovevano quasi amputargli la gamba. Nel Paese è come vivere in un carcere quindi e uscire da lì è una grande fortuna. Una volta usciti, normalmente si va nei centri delle Nazioni Unite, ma addirittura anche nei centri delle Nazioni Unite la gente viene rapita. Viene rapita poi in Ciad, in Sudan e nel Sinai ci sono circa 10 mila cadaveri: lì si torturava e si faceva pagare alle famiglie fino a 35 mila dollari. Adesso nel Sinai ci sono meno casi, perché l’Egitto per cacciare via i terroristi l'ha svuotato. Nelle carceri libiche non ne parliamo: mesi e mesi, incassati come nei pollai industriali, al caldo e, se si pagano i carcerieri, riescono ad uscire. E’ uno sterminio vero e proprio. Stiamo morendo ovunque. Basta vedere i documenti di Amnesty International. Poi bisogna pensare che è un popolo che ha una cultura antica, una civiltà antica, una scrittura rara in Africa. Come la biodiversità è utile per la natura, così la diversità culturale, la ricchezza culturale lo sono. Salvare questo popolo è anche interesse di tutti noi, per vedere il mondo da varie angolazioni.

D. – Come si sta muovendo la società civile eritrea in Europa, nel Nord America? In che modo può cambiare le cose?

R. – Stanno cambiando, perché i mezzi di informazione ci stanno aiutando. E’ Davide contro Golia, però. Chi sta al potere si è arricchito, ha capitali e noi da fuori stiamo cercando di incoraggiare l’interno dell’Eritrea ad impegnarsi a non accettare la schiavitù, la fame. Dalla diaspora ci sono le radio che stanno informando. Dal 2001, infatti, non c’è più un media libero. Quindi, la prima cosa è l’informazione. Per seconda cosa, si sta cercando di unirsi, come abbiamo dimostrato il 26 giugno scorso a Ginevra, per reagire ed appoggiare la Commissione d’inchiesta, che poi è stata prolungata per un anno, per appurare i crimini contro l’umanità, che si sono intravisti fin qui. Quindi noi lotteremo, ma come dopo la Seconda Guerra Mondiale ci fu un Piano Marshall, credo che anche all’Eritrea ne servirà uno.








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