2015-08-18 15:30:00

Sud Sudan, Salva Kiir non firma l'accordo di pace


Una firma con riserva, quella dell’accordo di pace per il Sud Sudan, siglato ieri a Addis Abeba sotto l’egida di diverse organizzazioni internazionali, fra cui l’Onu e l’Unione Africana. A esprimere dubbi sul piano di risoluzione del conflitto è stato il presidente del giovane Paese sub-sahariano, Salva Kiir, che ha chiesto 15 giorni per poter vagliare nel dettaglio i termini dell’accordo, caldeggiato negli ultimi mesi anche dalla Chiesa del Paese. Dopo 20 mesi di scontri, oltre 100 mila morti e due milioni di sfollati interni e rifugiati, la popolazione sud sudanese è allo stremo. L’analisi di Massimo Alberizzi, storico corrispondente dall’Africa del Corriere della Sera e direttore del sito Africa Express, al microfono di Giacomo Zandonini:

R. – Il Sud Sudan è un Paese nuovo, nuovissimo: è nato nel 2011. Tutti pensavano che potesse pacificarsi finalmente, invece è scoppiata la guerra civile. Questo accordo è stato firmato dalla parte dei ribelli di Riek Machar, accusati di avere tentato un colpo di Stato, il 15 dicembre del 2013. E' stato firmato anche da Pagan Amul, che è il segretario generale del Sudan People’s Liberation Army. Non è stato invece firmato, ma solo siglato, dal presidente Salva Kiir, il quale si è riservato di dare una risposta entro 15 giorni, cioè di tornare in patria e convocare i suoi Stati generali. Qualcuno esultava per questo accordo, ma non è un accordo proprio perché Salva Kiir non l’ha firmato. La cosa che dà fastidio è la richiesta di smilitarizzare Juba, che è la capitale del Sud Sudan, cioè tutto l’esercito regolare si deve ritirare. Juba dovrebbe essere una sorta di città aperta. L’Onu dovrebbe provvedere con delle forze di polizia a mantenere l’ordine a Juba e quindi nelle varie regioni. Le Nazioni Unite, tra le altre cose, sono abbastanza imbarazzate, perché loro avevano fissato per mezzanotte scorsa un ultimatum, dicendo: “O raggiungete un accordo, oppure io commino delle sanzioni”. Ora che Salva Kiir ha preso 15 giorni di tempo, non si sa bene se lasciargli questi 15 giorni di tempo oppure dire: “Tu non hai trovato l’accordo e quindi io sanziono solo te”.

D. – L’accordo prevede una sorta di spartizione di sfere di influenza fra i cosiddetti ribelli e il governo. Ma c’è un rischio che si arrivi effettivamente ad una sorta di divisione del Paese, secondo lei?

R. – L’accordo non è pubblico e quindi ci sono solamente delle voci: qualcuno ha riferito qualcosa. Per esempio, prevedrebbe un’integrazione nell’esercito, che ora è fatto da dinka, delle forze nuer, che sono quelle fedeli a Riek Machar, e di altre tribù minori, come gli shilluk e i bari.

D. – Molti evidenziano che più che uno scontro fra etnie – fra i dinka e i nuer – ci sia in realtà una dimensione economica forte, un interesse per il petrolio, che è concentrato in alcuni Stati. Qual è la situazione?

R. – Come al solito, in Africa si crede che le guerre siano tribali, ma in realtà non è vero. Certo, la manovalanza è tribale, ma i mandanti sono economici. Il grosso delle forze di Salva Kiir sono dinka e quelle di Riek Machar sono nuer. Ma, in realtà, ci sono per esempio dei dinka che sono schierati con Riek Machar. Tra l’altro, una persona importante è la vedova di John Garang, Rebecca Garang, e il figlio di Garang, che hanno appunto disconosciuto l’alleanza con i dinka di Salva Kiir e hanno sostenuto Riek Machar. Qualcuno ovviamente ha lanciato proclami di guerra, dicendo che "tutti i Dinka devono essere ammazzati" e questo preoccupa le Nazioni Unite e i Paesi interessati. 

D. – A livello regionale, è una crisi che sicuramente pesa in un’area già molto instabile, dove ci sono anche forti interessi economici, fra cui l’interesse per il petrolio. Che cosa sta succedendo? Cosa si muove?

R. – Ci sono fortissimi interessi della Cina – la Cina sta conquistando l’Africa, in realtà – e anche questi interessi della Cina ovviamente pesano. C’è un oleodotto che era in progetto, e in parte in costruzione, che doveva unire il Sud Sudan con il Kenya e quindi Mombasa, il porto sull’Oceano Indiano, perché adesso il petrolio passa dal Sudan e va a finire nel Mar Rosso. Quindi, la geopolitica è molto interessata a questo conflitto.








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