2015-08-20 15:34:00

Puglia, braccianti agricoli: vittime del caporalato


Continua a salire il numero delle vittime del lavoro agricolo, sfruttate dal caporalato nelle campagne pugliesi. In pochi giorni, dopo la notizia della morte di tre braccianti, fra cui una donna, Paola Clemente, di 49 anni, morta per un malore a San Giorgio Jonico, la Procura di Trani ha aperto un’indagine per accertare i motivi del decesso. A denunciare il dramma che vivono quotidianamente i lavoratori sfruttati dal caporalato, è stato anche il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, intervenendo sui decessi degli ultimi giorni e sull’allarme caporalato “da combattere come la mafia”. Sul tema si è espresso anche mons. Gianfranco Todisco, vescovo di Melfi: "i politici e le istituzioni devono fare un serio esame di coscienza, noi come Chiesa abbiamo detto 'non possiamo legalizzare l'illegalita''".Maria Caterina Bombarda ne ha parlato con il segretario della Flai Cgil Puglia, Giuseppe Deleonardis:

R. – Non sono state rese chiare le cause della morte della donna, la famiglia ha chiesto l’autopsia e in più ha chiesto anche di capire quali sono le condizioni di lavoro, che ci teniamo a sottolinearlo, erano pesanti. La lavoratrice partiva la mattina alle 3 dal suo paese per raggiungere Andria, con orari di lavoro che non erano quelli contrattuali: si lavorava oltre le sette ore in campo. C’è una serie di circostanze che ha lasciato dei dubbi: per questo, ripeto, noi abbiamo denunciato la situazione, perché era passata sotto silenzio, ma anche per capire quale fosse la natura dei rapporti di lavoro.

D. – L’estate 2015 si caratterizza per il picco delle morti per lavoro agricolo: può spiegarci le ragioni di questo fenomeno?

R. – Il fenomeno del caporalato è un fenomeno che fino a ieri noi abbiamo sempre denunciato – spesso in solitudine – che ormai è sistema in cui chi intermedia tra domanda e offerta sono i “caporali”: “caporali” che, in alcuni casi, venivano individuati nei caporali etnici o legati ai fenomeni dell’immigrazione, ma in realtà molti di loro hanno appreso tutto da noi. Il “caporalato” è un fenomeno nostro, è un fenomeno italiano, un fenomeno del Mezzogiorno in particolar modo e delle nostre aree. Il “caporale” è colui che intermedia, che trova il lavoro, che contatta i lavoratori non tramite la domanda pubblica del collocamento, e sottopone i lavoratori ai ricatti, a condizioni specifiche: sotto-salario, gli orari non contrattuali, non riconoscimento delle professionalità, quindi condizioni che rendono i lavoratori schiavi. Il caporalato è un fenomeno criminale, delinquenziale che è considerato dalla legge e purtroppo imperversa. Chi assume dovrebbe farlo applicando i contratti. Le donne sono i soggetti, insieme agli immigrati, più deboli del mercato del lavoro

D. – Quali leggi regolamentano questo fenomeno e come mai si sono rivelate – se possiamo dirlo – “inefficaci”?

R. – E’ stato il Dl 138 che recuperò una nostra proposta, ed è comunque un fatto positivo che sia stato introdotto il reato di schiavitù, il reato di sfruttamento. Il problema qual è? Perché non ha funzionato questo meccanismo? Non ha funzionato, a oggi, per due motivi: uno, perché la legge è incompleta, perché individua il “caporale”, ma punisce i datori di lavoro. Infatti, non può esserci “caporale” se non c’è chi lo utilizza, ovvero le imprese, le aziende. Inoltre, non ci sono controlli, non ci sono meccanismi. C’è una situazione di assenza dello Stato che porta molte lavoratrici a essere in un clima anche di paura, di accettazione. Quindi, questo stato di cose – da un lato, questo senso di impunità e di illegalità – porta anche la gente a non rivendicare, a non esercitare un proprio ruolo, un proprio protagonismo rivendicativo dei diritti.

D. – Cosa si può fare, oggi, per tutelare le vittime del lavoro agricolo?

R. – Il problema è strutturare meglio la legislazione, rivedere quell’idea di flessibilità di un mercato del lavoro che sia tutto nelle mani dell’impresa; quindi regolare, introdurre anche meccanismi di controllo pubblico, e su questo prevedere pure, poi, una presenza effettiva dello Stato, e anche una “certificazione etica” per quelle imprese che fanno buone prassi del lavoro. Il problema al centro di tutto è avere un’idea dell’uomo, della persona, della sua dignità e dei suoi diritti. E non solo del profitto dell’impresa.








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