2015-08-27 07:51:00

Sud Sudan: il presidente Salva Kiir firma l'accordo di pace


Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha firmato l'accordo di pace per porre fine a 20 mesi di guerra civile, ma con "serie riserve". La cerimonia della firmasi è tenuta a Juba alla presenza dei governatori regionali. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu aveva minacciato azioni immediate se Kiir non avesse firmato. L'accordo era già stato siglato dal leader dei ribelli, l’ex vicepresidente Riek Machar. "L'accordo non è la Bibbia né il Corano - ha affermato Kiir firmandolo - perché non dovremmo modificarlo? Dateci tempo e cercheremo di correggerlo". Nella guerra civile sono morte decine di migliaia di persone. Ma quali sono i motivi di preoccupazione per una pacificazione che continua ad essere molto difficile? Fausta Speranza lo ha chiesto a Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica:

R. – Il conflitto che è in corso dal dicembre 2013 nel Sud Sudan sembra giunto a una fase importante. L’accordo di pace sicuramente è un momento importante. Dovrebbe porre fine a un lungo periodo di conflittualità, anche molto alta, tra le due parti, ossia il governo e la fazione ribelle che però fa capo a quello che era il vicepresidente del Paese, Riek Machar, quando il Paese è diventato indipendente nell’estate del 2011. L’accordo è un momento importante e fondamentale anche perché fa vedere i risultati della diplomazia regionale e internazionale nel porre fine alla conflittualità. Il punto interrogativo è quanto potrà durare questo accordo, perché bisogna tenere in considerazione che la contesa, i motivi di conflitto non sono terminati. La firma dell’accordo comunque lascia un punto interrogativo molto forte, su quale sarà il futuro del Paese.

D. – Ricordiamo questi motivi del contendere?

R. – Alla base c’è il contrasto tra le due figure di punta del Splm, il partito al potere, cioè il presidente Kiir e l’ex vicepresidente Machar, e i loro sostenitori. E’ bene evidenziare che non si tratta di un conflitto meramente di natura etnica tra i due principali gruppi etnici dei Paesi – i dinka e i nuer – ma di una contesa politico-istituzionale che poi ha a che fare, fondamentalmente, con la capacità del governo e di chi tiene le istituzioni di gestire le “revenues” petrolifere che sono l’asset più importante del Paese. Il Sud Sudan – dobbiamo ricordarlo – è un Paese estremamente povero, che manca di infrastrutture economiche e che si basa fondamentalmente sulla gestione delle rendite provenienti, appunto, dalla vendita del petrolio.

D. – A livello sociale, come si rispecchia questo conflitto tra parti politiche?

R. – E’ uno dei punti interrogativi, cioè una volta che si giungerà all’accordo di pace e a una stabilizzazione anche di breve periodo del Paese, bisognerà poi rispondere alle domande fondamentali: questo Paese ha milioni di abitanti che vivono sotto la soglia di povertà, mancano i servizi di base fondamentali e quindi se non si risponderà a questi bisogni fondamentali della popolazione, il rischio è che sorgano nuovi conflitti. Anche perché diverse parti che fino a oggi hanno partecipato al conflitto non sono d’accordo con la firma degli accordi di pace ed è probabile che nei prossimi mesi possano sorgere nuovi conflitti.








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