2015-10-04 00:00:00

Raid russi in Siria, per l'Osservatorio almeno sette civili morti


In Siria, l'Osservatorio per i diritti umani denuncia che almeno sette civili sono morti nei nuovi raid aerei russi sulle province di Homs e Hama. Tra le vittime vi sarebbero anche due bambini. Ma per le forze aeree russe quelle che vengono usare sono bombe ad alta precisione. Intanto il presidente Assad dice che non esiterebbe a dimettersi se ciò potesse essere di aiuto, ma questo è un affare interno alla Siria. In questo quadro alcuni analisti iniziano ad immaginare quale potrebbe essere la Siria del dopo guerra, sia senza Assad che senza lo Stato Islamico. Elvira Ragosta ne ha parlato con Lorenzo Trombetta, corrispondente dell'Ansa a Beirut:

R. – E’ un esercizio molto difficile immaginare una Siria dopo Assad e dopo lo Stato Islamico. Ci sono delle regioni siriane che già da 2-3 anni sono ormai in una situazione di post-Assad, perché non sono più controllate dal regime siriano; ci sono delle regioni in cui lo Stato Islamico era presente e ne è stato cacciato dalla popolazione locale, dai miliziani locali, che non sono tutti estremisti o dello Stato Islamico; ma, al di là, di questo ci sono delle fortissime aree dove Assad da una parte e lo Stato Islamico e altri signori della guerra dall’altra - in modo più o meno mafioso - si assicurano un sostegno della popolazione, che ha bisogno di servizi essenziali, che ha bisogno di protezione: nelle zone controllate dal regime siriano, i bombardamenti aerei – per esempio – non avvengono. La maggior parte della popolazione siriana sfollata si trova oggi nelle zone controllate dal regime, perché sono zone di fatto più sicure…  In questo momento è molto difficile, forse l’unica parola che si può dare alla società civile siriana, che sul terreno resiste, con progetti più o meno grandi e più o meno visibili, è una società che vive, resiste e crede in un post sia Stato Islamico, sia Assad e che ribadisce che c’è anche una alternativa civile, non violenta, per il futuro.

D. – A propositivo di popolazione civile, il dramma siriano dura ormai da quattro anni: prima la guerra civile, poi l’occupazione dell’autoproclamato Califfato. 250 mila le vittime e 7 milioni circa i profughi. La nuova Siria, oltre a ricostruire la politica, dovrà far fronte anche alla ricostruzione di una società…

R. – Sì, in parte è già in corso. Le prime manifestazioni popolari del 2011, prima di essere una guerra civile, erano manifestazioni popolari, per lo più pacifiche; solo nel 2012 il conflitto si è armato e militarizzato e sono entrati numerosi Paesi regionali a soffiare sul fuoco di questo conflitto. Lo Stato Islamico non occupa un territorio, gran parte dei quadri medio-bassi dello Stato Islamico sono siriani e quindi non si può parlare di una occupazione di una entità straniera su un territorio. E’ un prodotto anche siriano ed è un prodotto anche delle carceri del governo siriano degli ultimi 30-40 anni, come avviene anche in Iraq e come avviene anche in Libia. La ricostruzione – come dicevo – in alcuni casi è già cominciata: è una società che cerca nel proprio piccolo e a seconda dei contesti politici e militari, di andare avanti e di pensare all’oggi: anche se la scuola viene bombardata, va comunque ricostruita, perché i bambini non possono interrompere di studiare; gli ospedali devono continuare a curare i feriti; i servizi essenziali e anche i servizi culturali in alcune regioni hanno ripreso a lavorare… E’ un contesto molto frammentato e molto vario al suo interno, però i siriani non aspettano che ci sia una pace ufficiale dall’alto per riprendersi quel che rimane del loro Paese. 








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