2015-10-28 15:19:00

Mons. Zuppi e mons. Lorefice: pastori in ascolto degli ultimi


Mons. Matteo Zuppi e mons. Corrado Lorefice, sono rispettivamente i nuovi arcivescovi di Bologna e di Palermo. Molte le reazioni di gratitudine alla scelta di Papa Francesco di affidare due diocesi importanti a personalità sensibili agli ambienti più disagiati della società. Il servizio di Adriana Masotti

"Quanto odore di pecore nelle nuove nomine episcopali di Papa Francesco per Palermo e Bologna!”. E' quanto scrive sul suo profilo Facebook padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, riferendosi a mons. Zuppi e a mons. Lorefice. E’ noto l’impegno di mons. Zuppi, finora vescovo ausiliare di Roma, per poveri, immigrati ed emarginati, e quello di mons. Lorefice, parroco di San Pietro Apostolo a Modica, nella diocesi di Noto, in Sicilia, spiritualmente vicino a don Puglisi. Ma sentiamo come ha accolto lo stesso mons. Zuppi la sua nomina ad arcivescovo di Bologna:

R. – Secondo le vie normali – quindi quella del nunzio – e poi una conversazione con Papa Francesco. Mi ha molto sorpreso ovviamente, e devo dire che l’ho ricevuta parecchio tempo dopo averla letta sui giornali…! Per cui quando l’ho letta, ho pensato ovviamente che fosse qualcosa che non aveva niente a che vedere con la realtà. E poi ho avuto tempo – diciamo così – in queste settimane di maturarla, di comprenderla, di viverla in maniera ancora più interiore e spirituale, spero.

D. – Posso chiederle di dirci qualche cosa di quello che le ha detto Papa Francesco?

R. – Parole sempre di grande incoraggiamento. Mi ha detto della sua volontà che questo cinquantesimo anniversario del Concilio possa rappresentare per tutta la Chiesa un’apertura verso il mondo e in particolare verso quelle periferie che giustamente il Papa indica come la nostra frontiera, il nostro orizzonte.

D. – Dalla Comunità di Sant’Egidio ad arcivescovo di Bologna; “il vescovo degli ultimi”: questo il titolo di un articolo letto su internet. La si definisce spesso anche come un “prete di strada”: sarà stato questo a motivare il Papa a scegliere lei?

R. – Non lo so. Credo che questa definizione – “prete di strada” – sia una definizione anche curiosa per certi versi, perché penso che tutti i preti sono per la strada: vogliono e devono stare per la strada. Forse la mia storia pastorale può essere stato uno dei motivi per questa scelta di Papa Francesco. Per me è stata una grazia ovviamente, per cui avverto tantissimo il limite personale e anche tanto la responsabilità.

D. – La sua attività accanto ai poveri, agli immigrati è anche un impegno per il futuro: sappiamo che la diocesi di Bologna ha accolto la sua nomina con entusiasmo…

R. – Questo non lo so. Ho parlato con il cardinal Caffarra, che è stato di una grande sensibilità ed accoglienza. Certamente comincerò nelle prossime settimane anche ad incontrare qualcuno – incontrerò anche lo stesso cardinale – insomma sono contento comunque che la reazione della Chiesa e della città di Bologna siano positive. Certamente sono gioioso di servire una città, una Chiesa, che hanno una storia, un umanesimo, una spiritualità così profonda. E quindi è davvero un onore e una gioia per me amarla e servirla!

D. – Lei però ha già inviato una lettera alla sua nuova diocesi dove ha scritto, tra l’altro: “Il vostro amore mi cambierà”. Che cosa vuol dire?

R. – Penso che ogni situazione ci rende diversi. Certamente quindi l’incontro, il camminare assieme con questi fratelli e sorelle di Bologna mi aiuterà a essere diverso, a crescere, maturare, comprendere in profondità le domande: questo è il dono della comunione. Siccome credo che la Chiesa sia essenzialmente comunione – il dono del Concilio Vaticano II è proprio quello della comunione – questa realizza ciascuno e lo cambia anche: ci trasforma insieme, come qualunque legame di amore. Per questo sono certo che la vita che inizierò a Bologna mi cambierà.

D. - Una parola chiave mi sembra, dell’atteggiamento che lei vuole avere è quello di guardare il mondo e l’uomo “con simpatia”: questo scrive anche nella lettera…

R. – È la parola chiave, per certi versi, del discorso conclusivo di Paolo VI al Concilio Vaticano II. Credo che sia la scelta di non guardare, non cercare dovunque le rovine e le difficoltà, ma guardare con attenzione, profondità – appunto con simpatia – l’umanità con tutte le domande, a volte anche contraddittorie. Insomma, credo che questa sia un’indicazione ancora oggi tanto importante: la sento tanto per me all’inizio di questo mio servizio e all’inizio dell’Anno della Misericordia.

“La prima cosa che farò è ascoltare e volere bene alla gente". Queste le parole dette da mons. Lorefice alla notizia della scelta di Papa Francesco di nominarlo nuovo arcivescovo del capoluogo siciliano. Sentiamolo al microfono di Antonella Palermo:

R. – Io penso che sia questo il primo compito di un pastore, sia in una parrocchia sia in una diocesi: la prima cosa che c’è da fare è stare in mezzo alla gente, conoscere, intanto porre il segno della prossimità, della vicinanza e dell’ascolto. E poi, lì, insieme, costruire questa attenzione alla realtà, ai bisogni, alle domande che nascono dalla storia e alla luce del Vangelo trovare quelle che possono essere le risposte che il mondo oggi pone anche alla nostra gente.

D.  – Vorrei chiederle come ha accolto il contenuto della Relazione finale dei vescovi al Sinodo, come lo ha accolto intanto da parroco, da semplice sacerdote… Quali sfide e quali difficoltà in particolare ora la attendono sul fronte della pastorale famigliare in qualità di vescovo?

R.  – Penso che la prima cosa da sottolineare sia proprio il metodo sinodale, il far sì che insieme si converga; questa convocazione, questo essere convocati corrispondono all’identità della Chiesa. Per cui i problemi e i nodi della vita si sciolgono insieme: si è attenti alla vita, alla storia, a quello che gli uomini vivono, sperano... E in questo  senso mi pare che il messaggio che è arrivato intanto sia questo: c’è una Chiesa che si riappropria del cuore del Vangelo, una Chiesa che sa capire che la prima parola non deve essere la norma, la legge, ma non deve smettere di dire un Vangelo che si fa cura, si prende cura anche delle ferite degli uomini e delle donne del nostro tempo. Per cui le sfide sono quelle della storia, della vita. Nelle trame della storia della vita noi riusciamo tra l’altro a cogliere meglio le pagine del Vangelo, il significato del Vangelo. Anzi è la storia come luogo teologico che ci permette di poter comprendere meglio il Vangelo. In questo grande tema della famiglia, e soprattutto così come è stato affrontato nella sinodalità, c’è una Chiesa che coglie realmente i segni dei tempi ed è il popolo di Dio che sente che comunque la misericordia, l’accoglienza, devono essere le parole che devono arrivare oggi attraverso la Chiesa.

D. – Questa sua nomina a vescovo di Palermo subito dopo il Sinodo e, possiamo dirlo, ormai alla vigilia del Giubileo della misericordia: come prepararci a questo evento?

R.  – Io vedo da questo punto di vista provvidenziale il fatto che il Papa si sia riappropriato della parola “gioia” legandola al Vangelo. E nell’Evangelii gaudium risuona anche quell’altra parola di Giovanni XXIII, in quel grande manifesto programmatico del Concilio Vaticano II, che è stata l’allocuzione iniziale “Gaudet mater ecclesia”. E poi riprendo anche la Gaudium et spes. Anche lì penso che risuoni questo tema: cioè, il Vangelo deve arrivare come forza di consolazione, come forza che raggiunge senza schiacciare e proprio questo è ciò che cambia le vite, le esistenze, gli stili di vita. Io penso che la cosa più importante di una presenza oggi della comunità cristiana nel territorio, fra la gente, sia proprio far arrivare questa gioia del Vangelo che è appello, che è chiamata, che è forza di cambiamento negli stili di vita. Per cui è lì che possiamo vincere l’individualismo, che possiamo vincere la cultura dell’illegalità. Penso che il Giubileo, da questo punto di vista e con la chiave di lettura che ci dà il Papa, sia realmente provvidenziale per le nostre Chiese.








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