2015-11-08 09:00:00

Sierra Leone libera dall’Ebola. P. Boa: Paese prova a ripartire


L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato la Sierra Leone ufficialmente libera dall'Ebola. Sono infatti trascorsi 42 giorni, pari a due cicli di incubazione del virus, senza che sia stato segnalato alcun nuovo caso di infezione. Negli ultimi 18 mesi, l'epidemia ha ucciso nel Paese africano quasi quattromila persone, su un totale di 11.300 morti, registrati anche in Guinea – lo Stato più colpito – e in Liberia. Una cerimonia ufficiale ha celebrato il traguardo a Freetown: soddisfazione è stata espressa dal presidente Ernest Bai Koroma, dal 2007 alla guida della Sierra Leone, dopo una guerra civile che, tra il 1991 e il 2002, ha provocato oltre 120 mila vittime. Sulle celebrazioni di queste ore, Giada Aquilino ha intervistato padre Maurizio Boa, giuseppino del Murialdo, missionario a Freetown:

R. – Ho visto ovunque tanta gente, festa, musica. Credo sia un senso di liberazione, di gioia: adesso tutto ricomincia daccapo, si può riprendere la vita normale! La gente è contenta: anche questa mattina nel mio ufficio sono venuti in tanti, tra cui i ragazzini del catechismo, e la prima notizia che mi hanno dato è stata: “Sai che non c’è più Ebola, non c’è più Ebola, non c’è più Ebola!”. Erano veramente contenti, come se facessero parte di tutti coloro che si erano dati da fare per sconfiggerla…

D – Questa tragedia come lascia di fatto il Paese?

R. – Soprattutto per la sanità e la scuola lascia un’impronta dura, difficile da risolvere immediatamente. Molti dottori, infermieri, insegnanti sono morti. Nove mesi, quasi un anno senza scuola! Tutti gli imprenditori stranieri se ne sono andati... Adesso, mi auguro che torneranno e riapriranno un po’ le attività che stavano facendo, così ci sarà lavoro. Però, certo, la nazione è giù...

D. – Perché questa epidemia ha provato il Paese anche dal punto di vista economico…

R. – Sì, certo, veramente si è rimasti senza sostentamento, tanto più che i mercati erano chiusi, il commercio era fermo, non ci si poteva toccare, non ci si poteva muovere, quindi un po’ tutto si era bloccato. Soltanto l’aiuto straniero, che è venuto dall’America, dall’Europa, da tante organizzazioni, ha potuto far continuare la vita qui, soprattutto agli orfani, alle vedove, a coloro che erano ammalati di Ebola, ai "survivors". Posso parlare per esperienza diretta del campo profughi di Waterloo, "Kissi Town", dove sono impegnato: non c’era niente da mangiare per parecchi mesi e abbiamo dovuto provvedere in qualche modo. Ieri, comunque, ho visto che anche i mercati erano aperti, quindi si è ripreso un po’ tutto.

D. – Un’altra conseguenza dell’epidemia è appunto quella dei bambini rimasti orfani: come si sta affrontando?

R. – I Salesiani hanno fatto molto. Io ne ho 134 in questo campo, a "Kissi Town". Stiamo cercando per loro famiglie e orfanotrofi: i tre orfanotrofi, le “Murialdo Homes”, sono aperti per loro, però sono tanti... Arrivare a casa e trovarsi senza nessuno è stato un colpo duro, per questi piccoli: abbiamo dovuto immediatamente trovare una famiglia, qualcuno che sostituisse l’affetto, l’attenzione che avevano i genitori. Ce l’abbiamo fatta e adesso, pian piano, cercheremo di risolvere la questione stabilmente. Cercheremo famiglie affidatarie o altro, perché questi ragazzi abbiano veramente un futuro sereno, tranquillo.

D. – Tra le emergenze e le piaghe di questo Paese, c’è anche quello delle ragazze incinte, giovanissime, che hanno problemi con la scuola…

R. – Sono contento che venga fuori questo problema. Parlo direttamente del campo di "Kissi Town": il 70% delle ragazze al di sotto dei 18 anni ha un bambino o è incinta. Una cifra che quando l’ho sentita – e mi è stata riferita dai capi del villaggio, dai capi del campo – ho pensato: “Bisogna darci da fare, far qualcosa per queste ragazze”. Allora stiamo pensando a una nursery, a un asilo dove ospitare i bambini per permettere alle mamme di continuare ad andare a scuola. Stiamo costruendo un ospedale, adesso: l’asilo lo faremo a breve come risposta a questa emergenza.

D. – Lei è in Sierra Leone da 20 anni: quali sono le sue speranze?

R. – Dopo la guerra pensavamo che fosse impossibile tirarci su e invece si era riusciti ad andare avanti bene. La Sierra Leone era riuscita a venir via dall’ultimo posto nella lista dei Paesi sviluppati. Si riprenderanno ancora: sono convinto che si riuscirà a ripartire pian piano, come dopo il conflitto.








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