Si conclude domani il 21.mo Medfilm Festival, uno sguardo sui Paesi che si affacciano nel Mediterraneo colti attraverso il loro cinema. Sono storie di immigrazione, emarginazione, dolore e coraggio, quello di tanti giovani cineasti impegnati nella denuncia e nella ricerca di pace. Nel pomeriggio di oggi è stato organizzato al Museo Macro di Roma un importante Focus sul tema: "Siria - Il cinema tra le macerie del presente”. Il servizio di Luca Pellegrini:
Il Mediterraneo, culla della civiltà, il mare dei grandi imperi, dei commerci, dell’arte e della cultura, oggi è tormentato da tempeste irrefrenabili, nelle sue acque sono sepolti innocenti, scorre il sangue di molti Paesi investiti dal terrorismo, dalla guerra, dall’intolleranza. Il Medfilm Festival, come e più degli altri anni, racconta con i settantotto film nel suo ricco programma il dramma degli emarginati e degli esclusi, il mondo dei clandestini e le difficoltà dell’integrazione, i conflitti e il grido degli innocenti. Traccia una mappa assai inquieta, ma proprio per questo ricca di vicende storiche e personali che ci dicono tanto sui destini attuali di Paesi e regioni oggi sotto la lente d’ingrandimento della storia. Uno di questi è certamente la Siria, alla quale il Festival dedica un Focus. Ginella Vocca, direttore artistico del Festival, ne spiega le ragioni:
R. – La scelta del focus sulla Siria è stata dettata soprattutto dall’urgenza e dalla necessità di riflettere su uno dei conflitti più controversi, dolorosi e significativi del nostro tempo. Parlare della Siria vuol dire affrontare tante questioni, tutte di primaria importanza. L’esodo dei migranti con cui l’Europa e il Medio Oriente si stanno misurando in questi mesi con molte difficoltà; poi la nascita del sedicente Stato Islamico, che ha trovato in Siria non solo la sua capitale – a Raqqa – ma anche un bacino consistente di combattenti, che all’inizio erano insieme per rovesciare il regime di Bashar al-Assad. E per quel che riguarda noi, il ruolo che ha svolto e che continua a svolgere il cinema, è il fatto che comunque è capace di contrapporre alla crudeltà della guerra, la bellezza e la grazia dell’arte. Un altro aspetto che riguarda molto più da vicino il nostro mondo – e il nostro modo di guardarlo – è l’utilizzo dei nuovi supporti di ripresa, che ha fatto sì che ci fosse una cronaca in tempo reale della guerra, raccontata direttamente dalla gente: quindi senza mediazioni dei registi o di giornalisti. La maggior parte – anzi tutti – i film che presentiamo in questa rassegna sono stati realizzati in maniera indipendente e spesso in condizioni di assoluta pericolosità. Gran parte degli autori infatti oggi è esule in Francia, in Germania, molti in Libano.
D. – Quale sguardo hanno i registi siriani che avete invitato al Festival nei confronti del loro Paese, attraverso il loro cinema?
R. – È uno sguardo caldo, e al tempo stesso gelido – gelato – come in una sorpresa che non finisce mai: una incredulità rispetto alla forza della realtà. Ma la caratteristica di questi Paesi e di queste cinematografie è comunque la resistenza e una volontà straordinaria di rappresentarsi. C’è un rapporto con lo strumento cinema, con lo strumento del racconto per immagini, molto forte – proprio urgente – e parlo proprio artisticamente, al di là delle indicibili sofferenze. Perché, per quanto se ne parli, non si può veramente capire! Arrivano delle immagini in “Silvered Water-Syria Self-Portrait”, in cui c’è un bambino che ha in mano un giocattolo e un fiore trovati in mezzo alle macerie. Nel momento in cui riesci davvero a concentrarti su quella cosa, eh no… non ci sono parole per raccontare, non ci sono parole!
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