2015-11-12 12:57:00

Siria: quando il cinema racconta la guerra


Si conclude domani il 21.mo Medfilm Festival, uno sguardo sui Paesi che si affacciano nel Mediterraneo colti attraverso il loro cinema. Sono storie di immigrazione, emarginazione, dolore e coraggio, quello di tanti giovani cineasti impegnati nella denuncia e nella ricerca di pace. Nel pomeriggio di oggi è stato organizzato al Museo Macro di Roma un importante Focus sul tema: "Siria - Il cinema tra le macerie del presente”. Il servizio di Luca Pellegrini:

Il Mediterraneo, culla della civiltà, il mare dei grandi imperi, dei commerci, dell’arte e della cultura, oggi è tormentato da tempeste irrefrenabili, nelle sue acque sono sepolti innocenti, scorre il sangue di molti Paesi investiti dal terrorismo, dalla guerra, dall’intolleranza. Il Medfilm Festival, come e più degli altri anni, racconta con i settantotto film nel suo ricco programma il dramma degli emarginati e degli esclusi, il mondo dei clandestini e le difficoltà dell’integrazione, i conflitti e il grido degli innocenti. Traccia una mappa assai inquieta, ma proprio per questo ricca di vicende storiche e personali che ci dicono tanto sui destini attuali di Paesi e regioni oggi sotto la lente d’ingrandimento della storia. Uno di questi è certamente la Siria, alla quale il Festival dedica un Focus. Ginella Vocca, direttore artistico del Festival, ne spiega le ragioni:

R. – La scelta del focus sulla Siria è stata dettata soprattutto dall’urgenza e dalla necessità di riflettere su uno dei conflitti più controversi, dolorosi e significativi del nostro tempo. Parlare della Siria vuol dire affrontare tante questioni, tutte di primaria importanza. L’esodo dei migranti con cui l’Europa e il Medio Oriente si stanno misurando in questi mesi con molte difficoltà; poi la nascita del sedicente Stato Islamico, che ha trovato in Siria non solo la sua capitale – a Raqqa – ma anche un bacino consistente di combattenti, che all’inizio erano insieme per rovesciare il regime di Bashar al-Assad. E per quel che riguarda noi, il ruolo che ha svolto e che continua a svolgere il cinema, è il fatto che comunque è capace di contrapporre alla crudeltà della guerra, la bellezza e la grazia dell’arte. Un altro aspetto che riguarda molto più da vicino il nostro mondo – e il nostro modo di guardarlo – è l’utilizzo dei nuovi supporti di ripresa, che ha fatto sì che ci fosse una cronaca in tempo reale della guerra, raccontata direttamente dalla gente: quindi senza mediazioni dei registi o di giornalisti. La maggior parte – anzi tutti – i film che presentiamo in questa rassegna sono stati realizzati in maniera indipendente e spesso in condizioni di assoluta pericolosità. Gran parte degli autori infatti oggi è esule in Francia, in Germania, molti in Libano.

D. – Quale sguardo hanno i registi siriani che avete invitato al Festival nei confronti del loro Paese, attraverso il loro cinema?

R. – È uno sguardo caldo, e al tempo stesso gelido – gelato – come in una sorpresa che non finisce mai: una incredulità rispetto alla forza della realtà. Ma la caratteristica di questi Paesi e di queste cinematografie è comunque la resistenza e una volontà straordinaria di rappresentarsi. C’è un rapporto con lo strumento cinema, con lo strumento del racconto per immagini, molto forte – proprio urgente – e parlo proprio artisticamente, al di là delle indicibili sofferenze. Perché, per quanto se ne parli, non si può veramente capire! Arrivano delle immagini in “Silvered Water-Syria Self-Portrait”, in cui c’è un bambino che ha in mano un giocattolo e un fiore trovati in mezzo alle macerie. Nel momento in cui riesci davvero a concentrarti su quella cosa, eh no… non ci sono parole per raccontare, non ci sono parole!








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