“Investissons dans la paix” (Investiamo nella pace) è il motto della campagna lanciata dalla Chiesa nella Repubblica Democratica del Congo insieme a numerose altre confessioni religiose. “Se i fedeli non si parleranno, se non avranno un progetto comune — spiega al Sir padre Leonard Santedi, segretario generale della Conferenza episcopale— allora finiranno con l’odiarsi, con l’alimentare i semi della guerra”.
Da 20 anni le regioni dell’est insanguinate
dalla guerra
Da un ventennio le regioni dell’est del Paese sono
attraversate da una moltitudine di gruppi armati, con scontri e violenze, che hanno
avuto il loro picco nella cosiddetta “Grande guerra africana”. “Come testimoni del
grido del popolo che arriva dai campi dei rifugiati e dalle famiglie sfollate a causa
del conflitto — continua Santedi — abbiamo deciso di lanciare questa campagna”. In
uno scenario dove le questioni di politica internazionale hanno bloccato gli sforzi
per arrivare alla fine delle ostilità, “investire nella pace” significa provare a
partire da un altro livello. Quello delle comunità locali, dove verranno inviati mediatori,
che aiutino a risolvere le dispute attraverso un’azione di prevenzione e l’indicazione
di alternative pacifiche.
Educazione e sul dialogo per uscire dalla
spirale della violenza
“L’approccio fondato sull’educazione e sul dialogo
— spiega padre Leonard Santedi — è un laboratorio che ci permette di avanzare sulla
strada giusta, perché la pace deriva da questo: andare oltre il conflitto, non rispondere
a esso con le armi”. Placare i contrasti a livello locale, per evitare che degenerino
in una guerra in cui si muovono forze ben più grandi e pericolose è un compito essenziale.
“Le popolazioni locali — aggiunge — sono già coinvolte in quel che accade e soprattutto
i giovani vengono arruolati dai gruppi armati che li portano a commettere abusi: ecco
che nasce il risentimento e la spinta a identificare le milizie con l’una o l’altra
comunità”. Una volta che questo accade, l’identità etnica diventa un’ulteriore arma
da usare contro il nemico. “Si sa per sommi capi a quale comunità appartengono i componenti
di una certa forza, o chi sfrutta le risorse naturali — conclude Santedi — e allora
facilmente tutte le persone di quella comunità, anche quelle pacifiche, sono considerate
responsabili, ed escluse o respinte. Così, si smette di parlare e di lavorare assieme
e si creano quei germi che forse, domani, dei politici o dei gruppi armati sfrutteranno,
accendendo il fuoco del conflitto”.
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