2015-11-15 09:37:00

Congo: campagna per la pace lanciata dalla Chiesa


“Investissons dans la paix” (Investiamo nella pace) è il motto della campagna lanciata dalla Chiesa nella Repubblica Democratica del Congo insieme a numerose altre confessioni religiose. “Se i fedeli non si parleranno, se non avranno un progetto comune — spiega al Sir padre Leonard Santedi, segretario generale della Conferenza episcopale— allora finiranno con l’odiarsi, con l’alimentare i semi della guerra”.

Da 20 anni le regioni dell’est insanguinate dalla guerra
Da un ventennio le regioni dell’est del Paese sono attraversate da una moltitudine di gruppi armati, con scontri e violenze, che hanno avuto il loro picco nella cosiddetta “Grande guerra africana”. “Come testimoni del grido del popolo che arriva dai campi dei rifugiati e dalle famiglie sfollate a causa del conflitto — continua Santedi — abbiamo deciso di lanciare questa campagna”. In uno scenario dove le questioni di politica internazionale hanno bloccato gli sforzi per arrivare alla fine delle ostilità, “investire nella pace” significa provare a partire da un altro livello. Quello delle comunità locali, dove verranno inviati mediatori, che aiutino a risolvere le dispute attraverso un’azione di prevenzione e l’indicazione di alternative pacifiche.

Educazione e sul dialogo per uscire dalla spirale della violenza
“L’approccio fondato sull’educazione e sul dialogo — spiega padre Leonard Santedi — è un laboratorio che ci permette di avanzare sulla strada giusta, perché la pace deriva da questo: andare oltre il conflitto, non rispondere a esso con le armi”. Placare i contrasti a livello locale, per evitare che degenerino in una guerra in cui si muovono forze ben più grandi e pericolose è un compito essenziale. “Le popolazioni locali — aggiunge — sono già coinvolte in quel che accade e soprattutto i giovani vengono arruolati dai gruppi armati che li portano a commettere abusi: ecco che nasce il risentimento e la spinta a identificare le milizie con l’una o l’altra comunità”. Una volta che questo accade, l’identità etnica diventa un’ulteriore arma da usare contro il nemico. “Si sa per sommi capi a quale comunità appartengono i componenti di una certa forza, o chi sfrutta le risorse naturali — conclude Santedi — e allora facilmente tutte le persone di quella comunità, anche quelle pacifiche, sono considerate responsabili, ed escluse o respinte. Così, si smette di parlare e di lavorare assieme e si creano quei germi che forse, domani, dei politici o dei gruppi armati sfrutteranno, accendendo il fuoco del conflitto”.








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