2015-12-24 14:28:00

Eutanasia. Prof. Pessina: la morte non è un diritto né un bene


Un nuovo caso di eutanasia di una cittadina italiana in Svizzera, ha riaperto nei giorni scorsi il dibattito sul fine vita, alimentato da un video della donna malata di tumore che annunciava in Tv la sua decisione, sostenuta - anche economicamente per i costi della trasferta a Berna, dove ha posto fine alla sua vita - dal Partito radicale, da molti anni impegnato a promuovere il suicidio assistito, quale diritto della persona. In realtà un diritto insostenibile, come spiega il prof. Alberto Pessina, ordinario di Filosofia morale, direttore del Centro di bioetica dell’Università Cattolica di Milano. Ascoltiamolo al microfono di Roberta Gisotti:

R. – Credo che si debba innanzitutto fare una distinzione molto importante per fare un ragionamento sereno e cioè distinguere tra il suicidio assistito - il caso di cui stiamo parlando - e l’eutanasia. Qual è la differenza? Il suicidio assistito viene compiuto di fatto con l’aiuto di un medico dallo stesso soggetto che vuole morire e di solito viene compiuto quando ancora non si è in una fase terminale. Nell’esempio portato dai radicali, infatti, la stessa persona dice che facendo la chemio avrebbe potuto continuare a vivere due o tre anni. Quindi si tratta di una situazione molto diversa da quella che solitamente è legata all’eutanasia, che viene compiuta nella fase terminale della vita. A questo aggiungerei anche un altro aspetto che mi pare assolutamente importante: nel suicidio assistito si chiede un aiuto per morire. Io credo che una civiltà oggi debba dare in realtà un aiuto per vivere in modo dignitoso - senza accanimento terapeutico - le fasi terminali della malattia. Da questo punto di vista le cure palliative sono una grande risorsa e sono una cosa che deve essere incrementata. Non esiste propriamente un diritto a morire per il semplice fatto che la morte non è né un diritto né un bene, tanto è vero che tutta la medicina combatte la morte e cerca di favorire e accompagnare la persona alla morte nel modo più adeguato.

D. – Tutto l’argomento viene però rimosso nell’opinione pubblica e se ne parla solamente in termini conflittuali invece che propositivi…

R. – C’è da dire una cosa. La nostra è un’epoca nella quale si ha più che paura della morte, paura della sofferenza e dei tempi lunghi della malattia. In un certo senso ho l’impressione che si stia in qualche modo speculando su alcuni casi molto particolari dimenticando che una risposta adeguata alla domanda di sostegno e di solidarietà delle persone non sia certo quella di procurare immediatamente la morte. Tra l’altro io non credo che nessuno abbia il potere di procurare la morte ad altre persone. 'Bypassare', togliere il divieto di uccidere significa entrare in un contesto culturale che è lesivo dei diritti della persona e non credo che questa battaglia dei radicali sia una battaglia capace di rispondere all’esigenza del nostro tempo. Siamo in un’epoca nella quale dovremmo tornare a pensare che l’eutanasia e le pratiche dell’eutanasia sono sempre state legate a un modello di barbarie.

D. – E’ pur vero che dobbiamo anche lottare contro le pratiche di accanimento terapeutico che sono state sicuramente esasperate dall’evoluzione della tecnologia…

R. – Sì, ma io credo che mentre stiamo discutendo sull’accanimento terapeutico, stiamo anche dimenticando le cattive morti, cioè le situazioni nelle quali non c’è assolutamente l’accanimento terapeutico ma c’è l’abbandono terapeutico, cioè non c’è la capacità di dare un sostegno che è un sostegno psicologico, è un sostegno farmacologico: è un sostegno umano. Quindi mi pare che si accentui un argomento ma poi alla fine, la tesi di fondo che i radicali stanno promuovendo non è una tesi che va nella linea della difesa della dignità della persona e quindi della proporzionalità dei trattamenti ma semplicemente della rivendicazione di poter decidere della propria vita. Una decisione che da una parte viene dichiarata come assolutamente soggettiva e personale e dall’altra parte però vuole essere regolata, normata con delle leggi che dovrebbero poi imporre a qualcuno di essere in qualche modo soggetto al ‘dictat’ delle altre persone. Credo che la battaglia dei radicali faccia male a tutte le questioni e a tutte le impostazioni che hanno a cura un’assistenza reale delle persone che sono sofferenti.








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