2015-12-25 08:29:00

Natale in Iraq. Patriarca Sako: cristiani iracheni missionari del perdono


Un Natale “nel silenzio e nelle lacrime” nella speranza di un Iraq “più giusto e un avvenire migliore”. Questa la riflessione del patriarcato caldeo di Baghdad nel giorno della nascita di Gesù, con l’auspicio di pacifica convivenza tra le varie comunità del Paese, in cui i cristiani rappresentano una minoranza, con ormai meno di 500 mila presenze rispetto al milione e mezzo dei primi anni Duemila. Giada Aquilino ne ha parlato con il patriarca Louis Sako, raggiunto telefonicamente nella capitale irachena:

R. – Noi abbiamo deciso di non fare celebrazioni “sociali” né decorazioni particolari. Celebriamo il Natale con silenzio e lacrime per dire ai musulmani: “Non è giusto, noi siamo cittadini come loro, non siamo cittadini di seconda classe”. Abbiamo gli stessi diritti, la libertà religiosa è per tutti. Nelle chiese, nelle parrocchie celebriamo le Messe per i bambini, per i giovani, per le famiglie. Il governo ha realizzato un albero molto grande, alto 25 metri, in un giardino qui vicino al Patriarcato. Ne ha fatto uno anche al Parlamento. Ma per noi questo non significa nulla: vogliamo atti di pari cittadinanza, gli stessi diritti degli altri. Questo ci dà fiducia per un futuro migliore. Se si continuano a fare persecuzioni non va bene!

D. - Che significato assume celebrare la nascita di Cristo per la minoranza cristiana irachena, costretta a vivere lontana dalla propria casa?

R. - È pieno di senso! Anche il Bambino Gesù nasce fuori dalla sua città, dalla sua casa; è un profugo con la sua famiglia. Poi non solo questo: viene minacciato come lo sono i cristiani e lascia Betlemme, Nazareth, va in Egitto. Anche i nostri cristiani hanno lasciato tutto perché c’è un pericolo, ma questo pericolo finirà. Io sono sicuro che i villaggi della Piana di Ninive, di Mosul, saranno liberati presto e potranno ritornare a festeggiare.

D. - Un appello allora ai cristiani di Iraq a resistere…

R. - Non ho il diritto di impedire alla gente di partire, è una decisione personale, familiare. Ma veramente spero che tutti rimangano qui, dove c’è la nostra identità. Ma soprattutto questa è la nostra vocazione: siamo missionari. La nostra Chiesa è stata missionaria, ha portato il Vangelo un po’ ovunque in Cina, in India. Oggi noi, in mezzo alla maggioranza musulmana, siamo missionari di una cosa diversa: il perdono, l’amore, la collaborazione con tutti, con gioia, con fraternità.








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