2015-12-29 15:20:00

Rapporto Rsf: due giornalisti su tre muoiono in zone di pace


Sono stati 110 i reporter uccisi nel 2015. A documentarlo è l’annuale dossier dell’organizzazione Reporter senza frontiere, che quest’anno sottolinea un dato a sorpresa, rispetto al 2014 e agli altri anni: delle vittime solo una su tre si trovava in zona di confitto. Il servizio di Francesca Sabatinelli:

Non si muore più solo in guerra, ma anche seduti alla propria scrivania. E’ il sette gennaio quando a Parigi, in un attacco terroristico, vengono uccise nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, dodici persone, sette delle quali giornalisti. A meno di un anno di distanza, Reporter senza frontiere ci dice che a crescere in questi 12 mesi è stato proprio il numero di cronisti uccisi in Paesi formalmente in pace, assassinati in casa per aver condotto scomode inchieste. L’attacco parigino ha portato la Francia a ritrovarsi al terzo posto nella classifica dei Paesi più a rischio, guidata da Iraq, Siria e poi ancora da  Yemen, Sud Sudan, India, Messico. Di chi sono quindi oggi bersaglio i giornalisti? Domenico Affinito, vicepresidente di Reporter senza frontiere Italia:

“Di chi ha sete di potere, di chi detiene il potere e lo esercita in maniera autoritaria, di chi ha il potere militare o ha il potere paramilitare – quindi gruppi di criminalità organizzata – a cui chiaramente il lavoro del giornalista approfondito, critico e che porta alla luce le verità nascoste dà fastidio”.

54 i reporter rapiti e tenuti in ostaggio, il numero più alto dei quali in Siria. Altro dato drammatico, quello degli arresti, l’altro modo per ridurre al silenzio la stampa libera. Sono state 154 le persone nel 2015 a essere state imprigionate, soprattutto in Cina, in Egitto, ma anche nella Turchia del presidente Erdogan, che quest’anno ha fatto arrestare nove persone. A correre i rischi maggiori sono i fotoreporter, coloro che documentano fotograficamente e che per questo sono in prima linea sul campo. Enrico Mascheroni è uno di loro, anch’egli di Reporter senza frontiere italia:

“Io ho iniziato a seguire la guerra dell’Iraq del 1991, seguita poi da Sarajevo, dove sono morti più di 60 giornalisti e forse quella, nella mia esperienza trentennale, è stata poi una svolta significativa su come le parti violente, le parti militarizzate del conflitto puntavano sul giornalista rispetto a quello che succedeva in altre guerre. Dall’assedio di Sarajevo è cambiato molto e ne è stata poi la dimostrazione anche la seconda guerra del Golfo, completamente blindata alla stampa”.

Nella lista delle vittime compaiono 27 “citizen-journalists”, ancora Affinito:

“Per ‘citizen journalists’ noi consideriamo quelle persone che, pur non essendo giornalisti, si occupano di giornalismo per informare di quello che avviene nel loro intorno, quelli che una volta potevano essere definiti “cyber dissidenti”, quei giornalisti cioè del giornalismo cittadino, del libero informare di quanto avviene all’interno della propria comunità. Infatti, per il 64% dei casi sono stati uccisi non in zone di guerra, ma perché evidentemente quello che avevano scritto aveva dato fastidio a qualcuno”.

Tra i morti si contano freelance e soprattutto "stringer", giornalisti locali utilizzati dalle testate importanti internazionali per coprire realtà difficili di guerra e non solo. Sono proprio questi  professionisti i meno tutelati, Domenico Affinito:

“Noi, come Reporter senza frontiere, cerchiamo di fare qualcosa e questo qualcosa è fornire loro degli strumenti: lì, dove sono zone di guerra, elmetti e giubbotti antiproiettile, ma anche, sia in zone di guerra che in zone non di guerra, cerchiamo di fornire loro una copertura di carattere assicurativo a costi accessibili. Si parla di 3-6 euro al giorno, anziché le migliaia di euro che vengono a costare invece i giornalisti delle grandi testate, che sono coperti dalle grandi assicurazioni europee”.

Da non sottovalutare, infine, il rischio che oggi comporta l’evoluzione delle tecnologie. Mascheroni:

"Una mancanza di presa di coscienza di cosa si sta andando a fare e dei rischi che ci sono: questo, secondo me, è stato molto facilitato dall’evoluzione del digitale, da un’evoluzione tecnologica, adesso dalle reflex agli smartphone tutto diventa più accessibile e molto più immediato nella condivisione, adesso si condivide il materiale immediatamente sul posto. Quindi, può creare sicuramente il problema di bonariamente banalizzare il rischio. Ciò che spaventa molto è la facilità con la quale una fotografia che viene scattata da una qualsiasi persona, che sia giornalista, che sia un aspirante giornalista, che sia un turista, la possibilità con la quale possa essere poi veicolata sui social media: ecco, io penso che sia questo a fare paura. Oltretutto, non si cancella più niente di quello che è stato scritto, di quello che è stato detto".

La minaccia principale, si legge nel  rapporto, viene dai cosiddetti gruppi non statuali, un esempio fra tutti, i jihadisti dell’Is. Molti governi però non rispettano i loro obblighi stabiliti dal diritto internazionale. Ecco, quindi, che la risposta a queste morti deve arrivare dalla comunità internazionale che deve farsi carico di tutelare il lavoro del giornalista, un lavoro utile dal punto di vista sociale e dal punto di vista storico.








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