2016-01-15 16:47:00

Giubileo. Don Pozza: "I detenuti mi insegnano il Vangelo"


"La Misericordia di cui parla Papa Francesco non è un teorema e nemmeno una favoletta inventata. Dietro le sbarre, e dico purtroppo per me che pure mi devo ricredere, la misericordia è una manovra molto seria e quando il cielo la compie riesce a partorire dei capolavori". Don Marco Pozza, teologo e scrittore, cappellano del carcere "Due Palazzi" di Padova e autore del libro “L’agguato di Dio” (San Paolo ed.), racconta come si sta vivendo l'Anno Santo in quella 'chiesa di galera' la cui porta costituisce una delle quattro porte sante della diocesi. E' stato proprio Don Marco ad assistere Zhang Agostino Jianqing, il giovane cinese, di famiglia buddista, detenuto a Padova, che ha offerto la propria testimonianza di riabilitazione umana e conversione spirituale in occasione della presentazione del libro-intervista di Andrea Tornielli a Papa Francesco "Il nome di Dio è Misericordia".

"Il nostro vescovo ha creato questa porta santa - spiega Don Marco - soprattutto per i pellegrini così che avessero la percezione del fatto che quando Dio tocca una carne sofferente riesce a mettere in piedi un marchingegno di grazia stupendo, e a volte porta anche alla conversione. Da bambino disprezzavo questa gente, oggi sono un po’ la mia traduzione fedele di cosa è il Vangelo. Mi sono accorto che io per trent’anni leggendo il Vangelo ho guardato un film straniero senza sottotitoli, pensavo di averlo capito. In realtà avevo capito il mio Vangelo. Loro invece mi stanno presentando quello scritto da Gesù Cristo, dove il nome di Dio non solo è misericordia verso gli altri, ma è misericordia verso se stessi, porta cioè ad ammettere di aver giudicato senza aver prima conosciuto". 

Il bilancio di poco più di un mese di Giubileo è sorprendente, secondo quanto registra Don Pozza. "Stiamo vivendo un momento di grande simpatia qui a Padova dove la nobiltà d’animo delle persone alle volte paradossalmente deve fare i conti anche con una tribalità di pensieri e di ragionamenti soprattutto nei confronti di chi nella vita ha sbagliato. Eppure, dentro a questa terra di conflitti, - ammette il cappellano - il primo guadagno del Giubileo è mostrare che l’uomo non nasce colpevole, non muore colpevole. Nel momento in cui la giustizia lo decreta tale a noi spetta il compito più bello, di ricostruire l’uomo, metterlo nella società diverso da come lo abbiamo trovato". 

"Pensare che in questo sottobosco che sono le carceri la fede passa ancora di cella in cella, di persona in persona, non può che farci ritornare alla mente la freschezza della chiesa primitiva, tenendo presente che nel nostro carcere il cristianesimo è in minoranza. Freschezza evanelica che fa del bene a chi ha incontrato Dio in tempi lontani e lo aveva dato come fattore scontato nella sua vita". 

"Il carcere è tribalità, da lì non possiamo prescindere - conclude ancora Don Marco - ma la prospettiva di fede ci aiuta a scoprire che dentro all’inferno c’è anche qualcosa che non è infernoIn carcere ci sono più di 20 nazionalità diverse. E’ una terra di passaggio, un incrocio di sangui, stiamo scoprendo la bellezza di realizzare quell’ecumenismo che noi preti a volte predichiamo ma facciamo fatica a vivere. I poveri invece in questo ci hanno anticipato e ci insegnano che se una terra - così come una storia, una chiesa - è transitabile diventa una terra, una storia, una chiesa ricca, altrimenti morirà di asfissia". 

 








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