2016-02-02 16:05:00

Femminicidio, la lunga lotta per fermare la violenza sulle donne


Sta bene la piccola Giulia Pia, nata prematura con parto cesareo dalla donna data alle fiamme dal compagno, a Pozzuoli, e che ora si trova in gravissime condizioni al Cardarelli di Napoli. L’uomo, un quarantenne si trova in carcere. Così come in stato di fermo si trova un altro uomo, nel catanese, accusato di aver strangolato la sua ex convivente, madre di tre figli. Nel bresciano la terza tragedia: un uomo di 57 anni ha ucciso la moglie a coltellate per poi andarsi a schiantare con la sua auto, contromano sulla A4, contro un tir. Tre storie orribili, tre storie di femminicidio, dalle cause diverse, ma dallo stesso drammatico esito. La speranza è che Carla Caiazzo, la 38.enne che lotta contro la morte con il 45% del corpo ustionato, riesca a sopravvivere. Per lei stasera, a Pozzuoli, si svolgerà una fiaccolata silenziosa. Una storia che ha scioccato, come spiega Maria Giovanna Ruo, avvocato, presidente di "CamMiNo", Associazione autrice di una ricerca sulla violenza domestica e di genere. Francesca Sabatinelli l’ha intervistata:

R. – Direi che è normale che siamo scioccati, direi proprio di sì, per il senso della perdita del linguaggio primario della cura, anche nei confronti di chi sta per nascere. Quello che io posso dire, da un osservatorio particolare, che è quello dell’avvocatura, è che la violenza nelle relazioni familiari e quella domestica è un fenomeno che potremmo definire presente, trasversale a ogni ambiente e ceto sociale, investe qualsiasi contesto, compresi quelli abbienti o “acculturati”, tra virgolette, perché poi chiaramente quando parliamo di episodi di violenza parliamo di una sottocultura. Tra l’altro, è un fenomeno destinato a essere sottostimato, non emerge nella sua interezza. Non conosciamo le miriadi di episodi che vi sono, che vengono perpetrati nei confronti soprattutto di donne in ambiente familiare e domestico. Di questo gli avvocati sono consapevoli: spesso noi raccogliamo il primo “disvelamento” della violenza e possiamo anche constatare purtroppo come la violenza sia vissuta troppo spesso dalle donne come un evento normale, che viene accettato per il bene della famiglia, tanto che meno spesso è l’oggetto dei primi colloqui con l’avvocato fiduciario del quale si chiede l’assistenza. Si dice: “Voglio un accordo”, ma è nei colloqui successivi che si scopre che sotto questo desiderio di accordo vi è una debolezza infinita, una situazione di vessazione che è ripetuta.

D. – Il fatto che questa ammissione arrivi tardiva, rispetto all’iniziale manifesta volontà della separazione, dipende da cosa?

R. – Nel 2013-2014, abbiamo svolto un’indagine a livello nazionale sul "numero oscuro" della violenza domestica e di genere. La maggior parte dei casi, quando queste donne che subiscono violenza decide di separarsi, non fondano la loro scelta di porre fine alla convivenza in relazione alla violenza subita. Nella maggior parte dei casi non vanno subito dall’avvocato, nel 48% nemmeno parlano della violenza subita. E quando finalmente la raccontano, lo fanno se indotte a seguito di domande delle professioniste. Nonostante tutto questo, in un ulteriore 70% dei casi il racconto non è nemmeno immediatamente integrale, ma avviene – nella stragrande maggioranza dei casi – progressivamente, nel corso del rapporto professionale. Il dato significativo è che nel 62% vi è stata una sosta di riflessione, prima di agire: “Grazie, avvocato, poi torno”, ma la maggior parte delle volte non tornano.

D. – E’ una questione culturale, prettamente culturale?

R. – Guardi, è una questione composita. C’è una dimensione culturale, c’è una dimensione di vergogna: vergogna per sé, vergogna per il partner, soprattutto se il partner è socialmente inserito. La donna ha paura di non essere creduta e ha paura del discredito sociale che deriverebbe da tutto ciò. Vi è poi la dipendenza economica: il violento è spesso anche colui che fornisce il tenore di vita, se non a volte proprio i mezzi di sostentamento al nucleo familiare. Allora, liberarsi di un violento – lei capisce – diventa estremamente complesso! Ancora: la violenza è multiforme. La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa prevede varie forme di violenza: fisica, ma accompagnata spesso dalla violenza psicologica, di denigrazione progressiva della figura dell’altro e infine dalla violenza economica: molto spesso, quando queste donne riescono a liberarsi del partner violento, il partner violento se è più forte economicamente lo diventa quindi anche sul piano economico, cioè non paga il dovuto, e questo è proprio – ahimé – un passaggio quasi obbligato, direi. Non paga il dovuto, affatica la donna sul piano giudiziario e molto spesso c’è una resa. Le dirò anche che la difficoltà delle donne di denunciare la violenza – e non intendo “denunciare” in senso tecnico-penale, ma proprio di formulare, di verbalizzarla – deriva, come conseguenza diretta, anche dal maltrattamento perché la donna perde il senso della propria dignità, non riesce più a distinguere quel che è giusto da quel che è sbagliato. E poi, molto spesso, dichiara di farlo per i figli. E questo è un errore enorme, perché i figli che assistono alle violenze anzitutto ricevono un danno loro stessi. Ci spiegano gli psicologi che un bambino esposto a violenza domestica vive un trauma e avrà conseguenze simili, e addirittura più gravi, di quelle dei bambini che hanno subito direttamente un maltrattamento o sono stati vittime di violenza. Chi ha assistito alla violenza da bambino o giovinett, tende a riprodurla nei confronti della vittima di violenza e se questa è la madre non denuncia: non può denunciare, non ci sono rimedi, è difficilissimo che ci siano rimedi.








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