2016-02-06 10:28:00

Giornata contro le mutilazioni genitali femminili


Il 6 febbraio si celebra la Giornata internazionale della “tolleranza zero” contro le mutilazioni genitali femminili, istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2003. Circa 140 milioni le donne e le bambine che hanno subito questa terribile violenza che comporta sofferenze e gravi conseguenze sulla salute. Circa la metà delle donne mutilate vive in Egitto e in Etiopia. Seguono Sudan, Mali e Guinea, ma la pratica è diffusa in quasi tutto il continente africano e anche in alcuni Paesi del Medioriente e dell’Asia. In occasione della Giornata, l’associazione Nosotras Onlus di Firenze, da tempo impegnata per liberare le donne da questa pratica, ha lanciato un nuovo progetto: la vendita on-line di un anello realizzato appositamente dall’azienda italiana di moda Es’Givien, destinando il ricavato al sostegno, in Africa, di donne mutilatrici disponibili a cambiare “mestiere”. Adriana Masotti ha intervistato Laila Abi Hamed, presidente di Nosotras:

R. – Nel 2003, la Conferenza mondiale del Comitato inter-africano si era posta come obiettivo quello di sradicare entro il 2010 queste pratiche nefaste per la salute per le bambine e per le donne. Oggi nel 2016, 13.ma Giornata contro la mutilazione genitale femminile “Zero tolleranza”, abbiamo appurato che gli sforzi compiuti, come quello di “fare lobby" con il legislatore, campagne di sensibilizzazione, creazione del microcredito per le donne ex mutilatrici ed altro, non sono stati sufficienti. I risultati ad oggi sono questi: in Mali e in Somalia, ad esempio, abbiamo ancora il 98 percento delle mutilazioni genitali femminili, e quindi è evidente che gli sforzi non sono sufficienti. Qual è quindi il segnale che ora bisogna dare? Quello di spostare la data dello sradicamento delle mutilazioni al 6 febbraio 2030. Che cosa vuol dire? Significa che entro i prossimi 15 anni dobbiamo raggiungere l’obiettivo di sinergia e collaborazione e che bisogna puntare sull’istruzione e sul sostegno economico.

D. – Certo non basta spostare la data per risolvere i problemi: vuol dire che c’è bisogno di più tempo. Ma quali sono, anche in base alla vostra esperienza, le modalità più efficaci per arrivare ad una diminuzione di questa pratica?

R. – Per quanto riguarda l’Italia, nel 2006 è stata varata una legge contro questa pratica, articolata in quattro punti importanti. Il primo, è quello della pressione tramite la condanna sia del medico che la fa, sia dei genitori della ragazza; il secondo è la formazione dei medici, dei servizi sociali, degli insegnanti; il terzo, la promozione di campagne di sensibilizzazione della comunità e il quarto è quello di avviare una cooperazione internazionale. Dal 2006 ad oggi in Italia ci sono state solo due condanne ed una ancora è da definire. Questo vuol dire che la pratica c’è e che viene perpetuata clandestinamente sul territorio. Io credo che abbiamo già perso la seconda generazione proprio perché i controlli non sono stati fatti. La terza generazione potrà essere quella del cambiamento se faremo un lavoro importante. L’obiettivo che noi ci poniamo a livello nazionale quindi è fare in modo che la terza generazione sia una generazione di donne non mutilate in quanto nate e vissute in Italia.

D. - Quanto è forte ancora la mentalità secondo la quale le stesse madri chiedono per le loro figlie questa pratica violenta?

R. - È forte, è forte: perché la questione della mutilazione genitale femminile per quanto riguarda la diaspora, cioè le persone che sono arrivate e che ormai vivono qui, è legata ad un forte attaccamento alla propria tradizione; invece in Africa è legata all’ignoranza e alla povertà. Come si può intervenire? L’intervento dei mass media sicuramente è fondamentale; però, se ogni volta che si parla di mutilazione genitale femminile si propone l’immagine di una bambina che urla, quindi un’immagine “forte”, qualcuno potrebbe risentirsi e dire: “Così si attaccano la mia cultura e la mia tradizione: a più forte ragione io voglio rimanere legato alla mia tradizione”. Credo quindi che anche i mass media abbiano un ruolo fondamentale per cambiare il modo in cui viene presentata questa pratica, affinché anche nell’immaginario collettivo vengano smontate queste idee di attaccamento alla nostra tradizione per paura di perderla e dire: “La mantengo perché tutti ci accusano di essere barbari”: quella parola va eliminata. Non è una questione di barbarie, ma di tradizione per il fatto che l’uomo ha un certo immaginario del corpo delle donne.

D. - Un contributo al contrasto della pratica delle mutilazioni è anche offrire alternative a chi vive praticandole. Per raccogliere i fondi necessari voi avete lanciato il progetto "CC" cioè "Castitatis Cingulum", un anello che si potrà comprare. Come è nata quest'idea?

R. - Abbiamo fatto un censimento in vari Paesi, dal Niger alla Nigeria, dalla Liberia fino a Gibuti e al Benin, di tutte le donne che praticano le mutilazioni e che già vogliono cambiare: questo progetto è importante e ambizioso. Questo oggetto di moda si potrà acquistare on-line e in alcuni negozi: aiuterà a dare un sostegno economico alle donne “mutilatrici”, cosicché possano smettere questa pratica e deporre i loro strumenti di mutilazione. Per informazioni si può visitare il sito dell’associazione: www.nosotras.it.








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