2016-05-04 13:04:00

Primarie repubblicane: la sfida per Trump ora è unire il Partito


È la giornata di Donald Trump. Il miliardario di New York si è aggiudicato l’ultimo braccio di ferro elettorale per la corsa alle primarie in casa repubblicana, battendo lo sfidante Ted Cruz nello Stato dell’Indiana. Il senatore di origini ispaniche ha già annunciato il ritiro dalla competizione, lasciando così il campo all’ormai più che probabile candidato per la presidenza nella strada che porta alla convention repubblicana di luglio. L’obiettivo del magnate adesso è quello di superare l’ostilità di buona parte del partito nei confronti della sua contestata leadership. Alla luce della vittoria di Trump nello stato del Midwest, Daniele Gargagliano ha chiesto al direttore de La Stampa, Maurizio Molinari, per anni corrispondente negli Usa del suo quotidiano, quali scenari politici potrebbero aprirsi d’ora in avanti nella sfida per la Presidenza degli Stati Uniti.

R. – Le elezioni in Indiana, le primarie di questa notte, segnano una svolta nella corsa alla nomination repubblicana. Il successo di Trump, grazie all’elettorato bianco, in uno Stato tradizionalmente conservatore, obbliga Ted Cruz a gettare la spugna e lascia, di fatto, Kasich nella posizione dell’unico sfidante rimasto. Per la prima volta Trump è in una condizione di vantaggio e favore rispetto al resto del Partito che lo ha osteggiato. Il discorso che ha pronunciato a Indianapolis è stato un discorso nel quale ha tentato di unificare il Partito. Questa è una svolta per Trump, che finora ha sfidato il Partito, lo ha messo con le spalle al muro, lo ha ironizzato e ha attaccato in maniera  - a volte – anche brutale i leader del proprio Partito. Ora punta ad unificarlo. L’interrogativo è se ci riuscirà…

D. – Come ne esce il Partito Repubblicano da questa corsa alle Primarie?

R. – David Brooks, l’editorialista del “New York Times”, ha scritto che ormai esistono due partiti repubblicani: uno figlio dell’establishment e della tradizione di Reagan e Bush, l’altro figlio della rivolta del “Tea Party”. Queste elezioni presidenziali – fino adesso – confermano che esistono almeno due anime del Partito, che di fatto sono divergenti: la feroce ostilità dell’establishment repubblicano nei confronti di Trump deve ancora manifestarsi in tutta la sua interezza. Non a caso, dopo il risultato dell’Indiana, alcune fonti repubblicane a Capitol Hill, hanno ipotizzato addirittura l’ipotesi di un altro candidato presidenziale da portare o alla Convention o addirittura esterno alla Convention. La realtà vera è che esistono due mondi conservatori diversi: uno espressione dell’establishment e l’altro della protesta.

D. – Sembra che in una parte del Partito alcune persone salgano sul “carro del vincitore”, cioè Trump…

R. – Questa è una dinamica consolidata nelle elezioni americane. Le elezioni americane vedono nella stagione delle primarie una estrema frammentazione. tanto fra i Repubblicani quanto fra i Democratici. Quando poi inizia la fase nazionale i due schieramenti tendono a raggrupparsi attorno ai candidati. Il vero interrogativo è se questo adesso avverrà anche nel campo repubblicano con Trump. Molto, credo, dipenderà proprio da Trump: per questo oggi ha iniziato ad operare un linguaggio più moderato nei confronti dei leader del Partito. Sta al vincitore delle Primarie creare una propria coalizione. La prima sfida per Trump è unire i Repubblicani.

D. – Secondo un sondaggio di Rasmussen, Donald Trump sorpasserebbe Hillary Clinton in una ipotetica sfida finale per la Casa Bianca. Qual è la sua previsione?

R. – Io credo che il sondaggio di Rasmussen è interessante soprattutto perché fotografa la debolezza di Hillary, testimoniata - fra l’altro - dalla sconfitta subita proprio in Indiana da parte di Bernie Sanders. Ciò che distingue la campagna di Hillary, in questo momento, è che sebbene sia la candidata più forte sulla carta e anche in qualche maniera più rivoluzionaria, essendo la prima donna che sta per cogliere l’obiettivo e il risultato di una nomination presidenziale, l’indice di negatività nei suoi confronti è molto alto, attorno al 46%. Ci sono molti americani che non la amano. Se noi andiamo a vedere chi sono gli elettori Bernie Sanders nelle primarie democratiche, vediamo che sono in gran parte giovani e in gran parte ragazze giovani. Il fatto che i giovani preferiscano votare per un senatore di 70 anni, che si autodefinisce “socialista”, anziché per Hillary Clinton, fotografa la debolezza di Hillary; e la debolezza di Hillary è la maggior forza dei Repubblicani e, nel caso specifico, di Donald J. Trump.

D. – Qual è l’eredità del Presidente Obama, soprattutto a livello di comunicazione?

R. – Il pendolo della tradizione politica americana è molto chiaro: dopo otto anni – in genere – si va sul fronte opposto: dopo Bush è venuto Obama e dopo Obama adesso si affaccia Trump… L’eredità che lui lascia è una eredità economica forte; di un Paese che è tornato a crescere e che resta la nazione più ricca del mondo, e che sul piano dell’innovazione, è di gran lunga il più efficace ed efficiente. Sul piano della comunicazione, invece, la realtà vera è che Obama non è riuscito a trasmettere contenuti in grado di segnarlo in maniera permanente. Questo è uno dei motivi per i quali viene criticato dai Democratici e le critiche dei Democratici ad Obama indeboliscono Hillary, perché è percepita proprio come un elemento di continuità.








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