2016-05-05 11:19:00

40 anni fa il terremoto in Friuli: la testimonianza di mons. Corgnali


Quarant'anni fa, poco dopo le ore 21 del 6 maggio 1976, un terremoto di 6,4 gradi Richter sconvolgeva le province di Udine e Pordenone. Quasi mille le vittime, 3 mila i feriti e decine di migliaia i senza tetto. Interi paesi vengono quasi completamente rasi al suolo. La scossa viene avvertita in un’area vastissima e provoca danni anche in Austria e in Slovenia. Innumerevoli le scosse nei mesi successivi: le più forti, l'11 e il 15 settembre. Dieci anni dopo la ricostruzione è quasi completata. Determinante il ruolo della Chiesa friulana: in prima linea, accanto alla gente nelle tendopoli, tanti sacerdoti guidano le comunità nel rapporto, non sempre facile, con lo Stato e con gli enti locali. In occasione di questo anniversario, la Regione e la Diocesi di Udine hanno promosso diverse iniziative. 

A Gemona, cittadina simbolo del terremoto, è stata celebrata nel pomeriggio una Santa Messa in ricordo delle vittime e per testimoniare la gratitudine del popolo friulano a tutti coloro, che da ogni angolo del mondo, sono accorsi in aiuto, in particolare le Diocesi italiane che all’indomani del sisma si gemellarono con le parrocchie terremotate, scrivendo una straordinaria pagina di solidarietà nella vita della chiesa italiana. Da Gemona, Anna Piuzzi:

Grande commozione nel Duomo di Gemona,  dove si è tenuta la solenne concelebrazione di suffragio per i mille morti del terremoto che colpì il Friuli 40 anni fa e di ringraziamento per quanti hanno operato nei 77 comuni sinistrati, a partire dalle 80 diocesi italiane gemellate con le parrocchie terremotate. E l’Arcivescovo di Udine, mons. Andrea Bruno Mazzocato, ha esordito proprio con la frase che ha fatto il giro del mondo: «Il Friûl al ringrazie e nol dismentee», «il Friuli ringrazia e non dimentica». «Questa frase  - ha detto mons. Mazzocato -, apparsa sui muri delle case diroccate, ha espresso uno dei sentimenti più genuini del popolo friulano provato dal terremoto. È questo sentimento che ci ha riuniti anche oggi, a 40 anni dal tragico sisma, nel duomo di Gemona che conserva in sé tanti segni di quella tremenda distruzione e, insieme, è testimone della volontà dei friulani di rinascere dalle macerie con la testa e col cuore». 

Un secondo grazie l’Arcivescovo l’ha voluto rivolgere facendo riferimento «al vero miracolo di solidarietà che il terremoto ha acceso dentro la Chiesa italiana. Oltre 80 diocesi italiane si sono spontaneamente gemellate con le nostre parrocchie colpite dal sisma, offrendo aiuti di ogni genere».

Oltre una trentina, infatti, le diocesi che da ogni parte d’Italia, con i loro vescovi o delegati, non hanno voluto mancare questo appuntamento a testimonianza di un legame di amicizia e solidarietà ancora vivo.  

L’Arcivescovo ha evidenziato inoltre il «cammino virtuoso di ricostruzione» sul quale si incamminarono «la Chiesa e il popolo friulano, partendo dal terremoto». «Questo cammino - ha proseguito - è stato guidato dalla parola appassionata, familiare e, insieme, autorevole, del suo Pastore, mons. Alfredo Battisti. Tanti di voi, come me, la conserveranno ancora viva nelle orecchie e nel cuore».

Numerose le autorità, civili e militari, presenti alla Santa Messa, in prima fila i sindaci e gli ex sindaci protagonisti della ricostruzione, accompagnati dai parroci di allora e di oggi. Folta e qualificata anche la delegazione della Regione, con in testa la presidente Debora Serracchiani.

Ma a 40 anni di distanza perché è importante fare memoria di quell'evento? Adriana Masotti lo ha chiesto a mons. Duilio Corgnali, arciprete di Tarcento in provincia di Udine, già direttore del settimanale diocesano “La Vita Cattolica”, tra i protagonisti del post-terremoto e coordinatore della Commissione diocesana per il 40° anniversario:

R. – Perché è stata una esperienza fondamentale per il popolo friulano e direi anche significativa per l’intera comunità nazionale, ma direi anche a livello europeo. Tant’è che si parla di “Modello Friuli”.

D. – Accanto al dolore, naturalmente, per le vittime del terremoto, pensare a quei giorni fa venire in mente anche ricordi positivi: ad esempio la solidarietà che il Friuli ha visto…

R. – C’era uno slogan a quei tempi, che affiorava sulle labbra dei friulani, che era “Fasìn di bessoi” – “Facciamo da soli”, tradotto in italiano – e che non voleva dire non vogliamo nessuno qui, ma voleva dire: “Ci assumiamo la responsabilità in proprio della ricostruzione”. Ma, naturalmente, con tutta la solidarietà che proveniva da tante altre parti. In particolare, a livello ecclesiale, va segnalato questo inedito fatto dei gemellaggi di 80 diocesi con altrettanti paesi distrutti dal terremoto: un gemellaggio che voleva dire non soltanto soccorso nel momento dell’emergenza, ma anche accompagnamento. Queste Diocesi per anni hanno accompagnato le comunità in tutti i momenti difficili, nell’inseguimento di questa speranza di ricostruzione.

D. – Quale fu, invece, il ruolo della Chiesa locale, dei sacerdoti friulani?

R. – Bisogna sapere che la Chiesa in Friuli è una Chiesa di popolo, soprattutto nel 1976 era questo. I preti erano preti fortemente radicati nella cultura del loro popolo: il prete aveva un ruolo fondamentale ed è stato importantissimo nel tenere alto il morale della gente. E’ stata una pagina straordinaria di vita ecclesiale, quella che abbiamo vissuto. Le Messe più belle – tutti le ricordano, quelli che ci sono ancora e sono superstiti di quel terremoto – sono state quelle a cielo aperto, in un campo sportivo, in mezzo alle macerie, in mezzo alle tende o nelle baracche in cui la gente portava il proprio vissuto e lo trasfondeva poi nella comunione con Dio e con i fratelli.

D. – Quel soffrire insieme portò anche ad una definizione maggiore della propria identità…

R. – Certo! Il terremoto è stato per il Friuli una riscoperta o quantomeno un far emergere quello che era nel profondo della coscienza del popolo friulano: la sua identità culturale, le sue tradizioni, la sua lingua. Non c’erano le case, non c’erano le chiese, non c’erano i campanili, ma restavano le radici profonde con le caratteristiche di questo popolo, che ha da sempre avuto un grande senso di responsabilità, una grande concretezza, ma anche una grande fede in un Dio che non abbandona, ma che accompagna anche nei momenti più difficili della vita.

D. – A chi non ha vissuto direttamente il terremoto, che cosa può arrivare ricordandolo oggi, a 40 anni di distanza…

R. – Noi come Chiesa ci siamo preoccupati, in vista del 40.mo, di far riemergere i tratti caratteristici che hanno consentito al popolo friulano di poter affrontare un disastro assoluto. Noi condensavamo, allora, in un solo termine questa identità: la “cjase” - la casa - che voleva dire il focolare, che voleva dire la famiglia, la solidarietà, la condivisione; che voleva dire anche l’orgoglio dell’essere responsabili della propria vita e quindi il gusto di essere protagonisti. Per cui abbiamo ricostruito, secondo quei principi che allora si dicevano, come “prima le fabbriche e dopo le case; prima le case e dopo le Chiese”. Perché senza le fabbriche non c’è lavoro; se non c’è lavoro, bisogna andare in emigrazione e le case distrutte erano frutto di anni di emigrazione della gente, di fatica… “Prima le case e dopo le Chiese”, perché le Chiese hanno ragione di essere se sono in mezzo alle case. E così è stato! E questo è uno dei messaggi più belli che possano essere trasmessi oggi.








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