2016-05-10 14:46:00

Elezioni Filippine, Affatato: con Duterte governo più accentratore


Un uomo forte contro il crimine e la corruzione. Così è definito in patria il nuovo presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte. Prima procuratore e poi ex sindaco di Davao, comune a sud del Paese, si è affermato con più del 36%, superando gli altri candidati tra i quali Leni Lobredo – seconda nella tornata elettorale – che potrebbe diventare vicepresidente di Duterte in seguito al termine delle operazione di scrutinio. Intanto, sulla figura del fresco vincitore si addensano i dubbi e i timori di una parte dell’opinione pubblica del Paese, che vedrebbe nella sua elezione un potenziale rischio per la democrazia nazionale in caso di riforma costituzionale - da lui promessa - per rinforzare il ruolo del governo a scapito del parlamento. Su questi temi, Daniele Gargagliano ha chiesto il commento dell’esperto di Sudest asiatico, Paolo Affatato:

R. – Non credo ci sia il rischio per una svolta autoritaria: la democrazia nelle Filippine è in qualche modo solida, dopo l’era del dittatore Marcos. Sono ormai 30 anni che il sistema democratico si è ben radicato. Quella della svolta autoritaria è stata una indicazione che è circolata anche nella campagna elettorale, specialmente tra gli avversari di Duterte: hanno cercato in qualche modo di delegittimarlo di fronte all’opinione pubblica, mettendo in luce la sua personalità e la sua azione politica che ha sperimentato per 22 anni come sindaco di Davao. Anche alcune organizzazioni – come "Human Rights Watch" – hanno segnalato la sua presunta complicità nell’azione dei cosiddetti “squadroni della morte”, bande di militanti e di vigilantes che sono sospettati di aver ucciso oltre mille persone. Però, proprio in questi giorni, il governo stesso ha detto ufficialmente che non ci sono prove del collegamento tra Duterte e queste milizie. Io direi che si può parlare di una gestione del governo che potrebbe essere un po’ più accentratrice, piuttosto che ad un reale pericolo di una nuova dittatura nelle Filippine.

D. – A conferma dei timori su un possibile ritorno ad un regime più autoritario, si parla anche del figlio dell’ex dittatore Marcos per la vice presidenza della Repubblica…

R. – Il figlio di Marcos è al secondo posto e sembra che la candidata Robredo possa essere la vicepresidente. Sappiamo che nelle Filippine anche il vice non è scelto dal presidente, ma viene eletto dal popolo. In ogni caso, qui si apre un’altra questione molto importante nella politica filippina: quella cioè dei clan familiari, del familismo, del fenomeno del cosiddetto “crony capitalism”, che significa un capitalismo clientelare, parentale, che è una locuzione venuta fuori e inventata proprio nell’era del dittatore Ferdinando Marcos. Oggi, è suo figlio quello che si candidata alla vicepresidenza… Nelle Filippine, la scena politica è stata dominata da pochi clan familiari che hanno gestito il potere politico, ma anche quello economico. Duterte, a sua volta, invece, è un outsider: non fa parte di quei clan che hanno sempre mantenuto il potere e quindi anche la presenza – come potrebbe essere probabile, se non certa – del figlio di Marcos come vicepresidente non credo che dia adito a un ragionamento sul tema della possibile svolta dittatoriale.

D. – La condanna netta verso la corruzione, il pugno duro contro la criminalità sono stati i punti forti – in campagna elettorale – che l’hanno premiato dagli elettori. C’era già, quindi, un forte malcontento nella popolazione verso la classe politica?

R. – C’è stato un desiderio di cambiamento, cui Duterte si è fatto interprete. E’ vero che le Filippine sono una nazione che negli ultimi anni ha registrato una crescita economica con la media del 6%, quindi piuttosto alta anche rispetto alle altre nazioni dell’area. Però è anche vero che questa crescita ha avuto poco effetto sul miglioramento della vita delle fasce più povere. Ci sono ancora situazioni veramente di grande povertà… Il fenomeno della corruzione ha attraversato anche l’ultimo sessennio del presidente Aquino, che è stato vicino, anche lui, all’accusa di impeachment.

D. – Fra i punti toccati dall’ex sindaco di Davao anche un progetto di riforma dello Stato, per dare più potere al governo a scapito del parlamento…

R. – Questo è uno dei pochi punti politici su cui Duterte si è espresso in campagna elettorale, anche se in modo molto generico. Sappiamo che nelle Filippine una riforma costituzionale è allo studio da molti anni, se ne parla almeno da 15 anni. Però, poi, non si è mai potuta effettivamente realizzare. Bisognerà vedere poi quale sarà la composizione del Congresso e del parlamento. Ma non credo che sarà un disegno molto facile da realizzare.

D. – Al di là degli slogan, non c’è comunque un rischio di un pugno troppo autoritario e quindi di una reazione sociale all’interno della popolazione?

R. – Una cosa è governare una città come Davao, altro è invece governare la nazione, con tutte le sue regioni, con tutta la sua complessità. Quindi, non sarà neanche facile per Duterte mettere in pratica questo suo desiderio di “ripulire” dalla criminalità l’intera nazione. E non sarà facile farlo pensando alle Filippine e pensando a un territorio ristretto come può essere quello di un comune. Effettivamente, ci siamo un po’ fermati a slogan, che avranno però bisogno di politiche concrete per essere messi in atto.








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