2016-05-11 15:49:00

Giustizia riparativa, p. Bertagna: più percorsi in carcere


Il gesuita Guido Bertagna è stato promotore, fin dalla fine degli anni '90 e poi in maniera più strutturata dal 2008, di percorsi di giustizia riparativa. Le esperienze di incontro fatte da lui e dai suoi collaboratori tra vittime e responsabili di fatti di sangue sono raccolte ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore, 2015). "E’ un’esperienza partita dall’ascolto e con l’ascolto è potuta andare avanti", racconta da Padova, dove attualmente vive, dopo aver a lungo operato a Milano. Riservatezza, volontarietà, libertà e gratuità sono i presupposti di cammini del genere. La questione di fondo è che, anche nei casi in cui si è giunti alla sentenza definitiva di condanna, la parte lesa non trova pace. Perché? "Perché la pace non viene dal dolore dell’altro, piuttosto dal trovare un senso, una ragione al proprio dolore. Attraverso l’incontro con la parte colpevole si scopre per esempio una sintonia, una comprensione, in una sofferenza che resta incommensurabile. E’ una esperienza molto delicata, intima e intensa".

Il fattore tempo

Padre Bertagna spiega alcune dinamiche che nascono da questi percorsi in cui spesso ci si è trovati a che fare con la vita e con la morte. "Si permette alla vita di riprendere e alla morte di non avere l’ultima parola". Si dice che il tempo guarisce... "Il tempo guarisce se ci si lavora - precisa - se diventa una risorsa per poter stemperare le tensioni e ricollocare il dolore sperimentato nell’ambito di una vita che riprende il suo corso dopo il violento contraccolpo di un lutto. Ma il tempo in sé, nella speranza che ci sia una sorta di smemoratezza o di attenuazione della memoria, in questo tipo di dolore non funziona, non basta. Anzi, a volte se non è una occasione per sciogliere, con l’aiuto di chi può farlo, il nodo si complica ancora di più". 

La fede che posto ha?

"In alcuni la fede è esplicita e motivante. In altri non lo era e continua a non esserlo. In altri ancora c’è stato un riscoprire le proprie posizioni di partenza oppure una fede smarrita. Si tratta comunque di cammini che hanno una profondità umana talmente forte per cui se c’è una risorsa spirituale e un appello in qualche modo ad un 'oltre', anche in chi non lo avverte consapevolmente e non gli dà il nome tematico di una fede o di una esperienza religiosa condivisa, allora da credente mi sento di poter collocare questa autenticità in un orizzonte che mi parla di fede e di presenza di Dio. Del resto il cardinal Martini stesso diceva – nell’ambito della Cattedra di credenti e non credenti – che il mondo si divide in pensanti e non pensanti, la linea tra credenti e non credenti passa non al di fuori di noi ma dentro di noi. Ed è un dialogo continuo". 

Che cosa è il perdono?

Bertagna attinge alla risposta data a questo proposito da una persona non credente che aveva avvicinato gli artefici della uccisione del proprio padre: "Se il perdono è il riconoscimento pieno del cammino di cambiamento che io ho fatto, e quindi un parlare profondo dalla mia umanità alla sua, scoprendo che sono entrambe queste umanità sono dolenti e hanno anche bisogno di riconoscersi in un dolore attraversato, allora vuol dire che io ho perdonato. Di sicuro - riprende il gesuita - il perdono è liberante per chi lo dà e per chi lo riceve. Sennò non è. Tutto il resto rischia talvolta di essere etichettato come tale perché diventi per noi più digeribile". Come stanno dunque tra loro giustizia e misericordia? "La giustizia intesa come recupero pieno di una relazione che ha attraversato momenti drammatici, e in qualche modo guarisce la ferita creata, questa giustizia è il compimento della misericordia. E allora comporta la scoperta dell’altro con la A maiuscola, che il più delle volte non è come lo avevo immaginato io, che non mi punisce ma mi riabilita".

Bisogna potenziare questi cammini nelle carceri

"Ci vorrebbe un maggior investimento di fiducia e di speranza, soprattutto, e poi anche di denari per la formazione di persone qualificate in grado di portare avanti un percorso in questa direzione. Il tempo del carcere spesso è lasciato all'inattività, in balìa di rapporti violenti e spersonalizzanti. Se ci fosse invece più possibilità di questo tipo, anche senza arrivare necessariamente all’incontro con l’altra parte, si sarebbe capaci di fare uscire da se stessi, di fare affiorare una memoria buona, non ricattata dal risentimento".

 








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